L’economia contro l’uomo

migranti-folla.jpgFino alla metà del secolo scorso, le risorse planetarie, rispetto alla popolazione mondiale, erano talmente abbondanti che il superamento di ingiustizie e povertà era considerata una questione etica risolvibile in ambito politico con la creazione e la distribuzione nel mondo di nuove tecnologie: la povertà e la fame erano generalmente attribuite all’arretratezza tecnologica dei paesi poveri. Poi negli anni ’70 l’umanità ha cominciato a consumare più risorse di quante il pianeta riusciva rigenerare e a danneggiare le dinamiche su cui si sviluppa la vita del pianeta, come il sistema climatico, ad un ritmo superiore a quello necessario alla biosfera per ripristinare gli equilibri essenziali. Insistendo su un modello economico fondato unicamente ed indissolubilmente sulla crescita della produzione e dei consumi, in quegli stessi anni, secondo le analisi dell’economista Herman Daly, continuava a crescere la parte del Prodotto Lordo (PIL) relativa ad attività di riparazione dei danni causati dalle tecnologie produttive (inquinamento, dissesti idrogeologici, malattie, distruzione delle foreste, disoccupazione prodotta dalla automazione industriale, criminalità, ecc.) mentre la parte del PIL relativa ad una reale produzione di benessere, quella che Daly chiama “indice di progresso reale”, restava costante; in altri termini la crescita economica non corrispondeva più ad una crescita del benessere, ma ad una crescita di danni. Pur consapevole di ciò, il sistema economico mondiale ha continuato fino ad oggi sull’unica strada che conosce, e non vuole o non sa abbandonare, perseguendola fino a rischio della sua stessa distruzione.
L’ossessiva necessità di risorse per la crescita, ha accresciuto, invece del benessere, la conflittualità fra le potenze economiche che si è tradotta quasi sempre in destabilizzazione di aree intenzionalmente tenute nella miseria e nell’ignoranza, per poterne meglio sfruttare l’enorme ricchezza di risorse; e così abbiamo assistito a finte guerre di religione, lasciando campo libero alle peggiori pulsioni violente e primitive. Popoli massacrati e senza speranza hanno iniziato a mettersi nelle mani di cinici criminali, che tuttavia rappresentavano l’unica risposta alla loro disperazione. Ad essi si aggiungeranno nei prossimi decenni centinaia di milioni di disperati in fuga dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. In una spirale di brutalità decine di persone arrivano ammassate in barconi, perché scafisti criminali possano trarre il maggior profitto da questa “merce umana” viva o morta. Se questa logica criminale possiamo ancora considerarla come una logica conforme alla dominante ideologia del profitto, più inquietante ci appaiono episodi di “disinteressata brutalità”. A che giova buttare a mare l’insulina di un bambino diabetico condannandolo a morte? A che giova lasciar morire asfissiate nella stiva decine di persone che potrebbero essere salvate semplicemente creando prese d’aria di fortuna?
Il cinismo sembra dominare questa fase decadente del capitalismo anche nei paesi europei che farebbero qualsiasi cosa per veder crescere il PIL di qualche decimale. Ed anche da noi c’è gente senza qualità che ha scelto la politica come unica palestra per costruirsi una carriera e un successo altrimenti impossibili, e con pseudo ragionamenti grossolani e demagogici, costruisce cinicamente le sue fortune personali stuzzicando i sentimenti egoistici peggiori nella mente di persone che nella complessità delle difficoltà generali hanno bisogno di un quadro rassicurante, benché assolutamente falso, in cui ci sia un problema, un colpevole e un “salvatore” portatore di una facile soluzione di “buon senso”. La loro capacità di costruire allarmi e paure arriva a far credere a molti sprovveduti che sia sufficiente mettere una mano sul buco per arginare una diga che sta accumulando una crescente pressione che la nostra stessa economia alimenta; che siano sufficienti leggi dure, rimpatri coatti o muri di filo spinato per risolvere il problema; è come voltare le spalle fingendo che il problema non esista.
Tutto ciò ci fa ritenere che l’uomo non sia più da tempo al centro dell’economia e della politica, ma sia ridotto nel migliore dei casi a strumento di produzione e consumo, e nel peggiore dei casi a merce su cui realizzare un profitto o un vantaggio politico.
L’incapacità di riconoscere che la crescita dei consumi è una ossessione insensata, in un mondo diverso da quello passato in cui poteva considerarsi un obiettivo di benessere, può produrre solo ulteriori disastri. Dobbiamo imparare a costruire il benessere presente e futuro in una economia di produzione e consumi stazionari, in cui a crescere non sia la quantità di beni prodotti, ma la qualità e l’utilità sociale delle attività svolte: cura della salute, istruzione, cultura, cura del territorio, miglioramento delle qualità ambientali, equità sociale, miglioramento dei servizi, qualità del cibo, dell’aria e dell’acqua, solo per indicare alcune attività in grado di creare occupazione e benessere in modo stabile e con prospettive future.
Al punto 109 dell’enciclica “Laudato si” Papa Francesco dice: “Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale.”
Il profitto, nella moderna società consumista dello spreco, non si costruisce con l’ingegno ma sulla base di un debito ecologico che paesi ricchi, anziché pagare, scaricano semplicemente su quelli poveri.

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