Quand’ero bambino, negli anni Sessanta del secolo scorso, il futuro (il Duemila!) era fonte di grande meraviglia e attesa. Era il periodo della “conquista della spazio”, ero già nella pancia di mia mamma quando il primo Sputnik venne messo in orbita intorno alla terra, quando avevo tre anni fu la volta di Gagarin, il primo uomo nello spazio, e, dopo soli otto anni, la Luna!
L’idea diffusa era che un simile progresso tecnico fosse inarrestabile. Ci attendevamo una vita sana e lunga, un benessere diffuso, una strordinaria capacità e velocità di spostamento e fonti di energia illimitata.
Forse è bene ricordare, o raccontare, che allora i viaggi in aereo erano appannaggio di una minoranza, tanto che venne coniata l’espressione “jet set” a indicare i pochi fortunati che usavano spesso l’aereo, in prevalenza attori, capitani di industria e qualche uomo politico. Anche l’automobile negli anni Sessanta era disponibile a una minoranza, circolavano soprattutto delle scatolette di latta Fiat e si vedevano famigliole intere aggrappate a una Lambretta, ma la massa si muoveva con i mezzi pubblici, in bicicletta nelle città e paesi di pianura, o non si muoveva affatto. L’autostrada del sole, più o meno l’unica che c’era, consisteva di uno stretto budello a due corsie e per andare a Roma in treno da Milano col rapido ci volevano otto ore, una giornata.
La televisione si andava a vedere nei luoghi pubblici (anche se molte famiglie di un certo livello economico cominciavano ad acquistarla, insieme ai nuovissimi “elettrodomestici”) ed era molto in voga il cinema (c’erano sale ovunque, in ogni paesino ce n’era almeno una). Erano arrivate però le radioline giapponesi a transistor, miniature perfettamente funzionanti e portatili, al posto di quei grossi oggetti in legno a valvole che giocoforza dovevano stare in casa attaccati a una presa elettrica.
Cominciava a entrare in ogni abitazione la coloratissima plastica, che andava a sostituire i monotoni oggetti di uso comune, che prima erano escusivamente in legno metallo e ceramica. Nessuno si domandava quali fossero le conseguenze sulla natura e la salute delle nuove cattedrali industriali della chimica della siderurgia del cemento e dell’energia che venivano su come funghi: all’epoca la parola ambiente (per non parlare del ministero) non esisteva proprio.
Ora il futuro è arrivato: i treni viaggiano ad “alta velocità”, le autostrade coprono l’Italia e l’Europa come una ragnatela, l’aereo è diventato “low cost” e lo prendono tutti, moltissime persone campano oltre ottanta, novanta e persino cent’anni. In ogni casa l’elettricità, l’acqua corrente, decine di “elettrodomestici”, computer personali, e ora persino gli apparati minuscoli e allora inimmaginabili che chiamiamo “smartphone”, che ci connettono globalmente in un baleno. Persino i cinesi, che all’epoca della mia infanzia morivano di fame come mosche, ora si sono industrializzati ed arricchiti, fino al punto di aver spedito anche loro un veicolo sulla Luna, e di venire in vacanza in Italia.
Eppure… Eppure insieme a questi enormi progressi materiali non è arrivata quella felicità che ci aspettavamo negli anni Sessanta, anzi ora c’è una diffusa angoscia e il futuro appare minaccioso. Per esempio ieri si celebrava il “giorno della Terra”, una ricorrenza che serve a ricordarci che abbiamo messo il pianeta che ci ospita quasi in ginocchio, sfruttando ogni stilla delle sue risorse e sporcandolo fino all’inverosimile con i nostri scarti. Persino il clima sta cambiando a causa delle nostre frenetiche attività di consumo.
Che fare? Alcuni chiedono di tornare indietro, di recuperare uno stile di vita e un modo di consumare compatibile con le risorse disponibili, per garantire un futuro equo anche a chi viene dopo di noi. Altri chiedono di introdurre massicciamente nuove tecnologie che garantiscano lo stesso livello di benessere ma con impatti assai ridotti. Altri ancora, ho l’impressione che siano la stragrande maggioranza, non si rendono conto di nulla, vivono immersi nella stessa atmosfera consumista che prese avvio proprio negli anni Sessanta. Per loro il giorno della Terra non significa nulla, in tv non c’è.
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Appello a Renzi
Chi oggi ha meno di quarant’anni, come lei, sua moglie e i suoi figli, signor presidente Renzi, potrebbe essere testimone (e vittima) durante la propria vita di uno sconvolgimento senza proporzioni: l’evoluzione del clima terrestre verso condizioni di sostanziale invivibilità. Ricchi o poveri, potenti o diseredati, nessuno potrebbe sottrarsi all’impatto di questo disastro senza precedenti.
Non sono le fantasie di uno scrittore di fantascienza, i sogni di un pazzo o i vaneggiamenti di un ubriaco: sono invece calcoli complessi effettuati e controllati decine e decine di volte da centinaia di scienziati a disegnare un quadro che non può chiamarsi altro che apocalittico, ove andasse a dispiegarsi nella sua piena potenza.
Se le temperature globali salissero di quattro o cinque gradi non sarebbe più possibile sfamare l’umanità: terribili siccità porterebbero il deserto là dove oggi si coltiva il grano, e sarebbe altresì impossibile impedire la distruzione delle grandi città costiere che assicurano i commerci, a causa del sollevamento dei mari.
Immense masse di profughi tenterebbero di allontanarsi dai luoghi di origine, privi di cibo e acqua potabile, dirigendosi verso zone meno calde, con flussi migratori che farebbero impallidire quelli cui abbiamo assistito finora, e scatenando inevitabili conflitti armati.
Tutto questo si può ancora evitare, ma non c’è molto tempo, anzi ce n’è pochissimo. Secondo gli stessi calcoli, riassunti in recenti rapporti dell’Onu (i tre volumi del quinto Rapporto di valutazione Ipcc, 2013 e 2014) abbiamo una finestra di una quindicina d’anni in cui operare una radicale modifica del nostro modo di produrre e consumare energia. Una modifica che potremmo riassumere in una parola: decarbonizzazione.
Attualmente l’umanità consuma (per lo più sperpera) un’enorme quantità di energia fossile: soprattutto carbone per le centrali elettriche, petrolio per i carburanti e gas per il riscaldamento. In Italia, nonostante una certa crescita delle fonti rinnovabili e soprattutto nonostante una crisi economica senza precedenti, i consumi di energia fossile restano altissimi: ogni italiano ogni anno emette in atmosfera l’equivalente di *otto* tonnellate di anidride carbonica. Sono venti chili di CO2 al giorno, per ogni uomo donna e bambino d’Italia.
L’anidride carbonica, come lei ben sa, è appunto il gas che sta scaldando il clima. Il livello di emissioni sostenibile, ovvero compatibile con la conservazione di un clima vivibile, si aggira intorno alle *due* tonnellate a persona l’anno, un quarto del nostro attuale livello nazionale.
E’ indispensabile dunque dare una robusta sterzata al nostro sistema energetico per non scivolare verso il baratro descritto poc’anzi. E’ indispensabile sostituire rapidamente le fonti fossili con fonti rinnovabili. E’ indispensabile impedire lo sperpero di energia generato da un patrimonio edilizio enorme e malfatto perché privo di adeguato isolamento, e da motori come quelli a scoppio, che usano solo un quarto dell’energia contenuta nei carburanti e buttano via il resto.
Decarbonizzare si deve e si può: ristrutturare e isolare gli edifici, elettrificare il trasporto, convertire il sistema energetico al sole e al vento non sono solo provvedimenti indispensabili per la sopravvivenza della sua e della mia famiglia, signor presidente Renzi, sono anche strumenti essenziali per uscire dalla crisi economica, un immenso volano tecnologico e occupazionale che una volta messo in moto ci riporterebbe all’avanguardia dell’Europa e del mondo.
Sappiamo bene che la salvezza dal disastro climatico planetario non può che essere ottenuta da una collaborazione planetaria, ma per guadagnarci la fiducia che serve dagli altri paesi dobbiamo mostrarci determinati ad affrontare la via del cambiamento prima di tutto in Italia, poi in Europa (di cui lei assumerà la presidenza tra pochi mesi) infine a livello globale, quando l’Italia e l’Europa potrebbero giocare un ruolo guida nelle trattative per il nuovo trattato climatico, che si svolgeranno a Parigi nel 2015.
Cordiali saluti e grazie per l’attenzione
Vittorio Marletto, candidato indipendente alle elezioni europee, in lista con Green Italia Verdi europei nel Nord-Est
Non siamo attrezzati, o forse lo siamo troppo?
L’Italia ha bisogno di un vero servizio meteoclimatico nazionale, di scala simile a quelli disponibili negli altri paesi, per affrontare con la necessaria attrezzatura tecnica il cambiamento del clima che la sta già devastando e che non potrà che peggiorare. Gli elementi ci sono già tutti, il paese è pieno di eccellenze in tutto quel che serve, reti di misura, modelli matematici, capacità di analisi e competenza scientifica. Questi elementi sono però sparpagliati in una pletora di organismi tecnici e scientifici centrali e locali, talvolta in concorrenza tra loro per le scarse risorse economiche. Manca la coscienza di questa necessità organizzativa da parte del governo e del parlamento. Manca la coscienza di questa necessità soprattutto nell’opinione pubblica, confusa da messaggi contraddittori provenienti da ogni direzione. Persino tra gli addetti ai lavori serpeggia lo scoramento, e la sfiducia che qualcosa possa davvero cambiare. E’ invece drammaticamente ora di cambiare, e di guardare avanti con una seria riforma del settore. Ma diamo uno sguardo alla situazione attuale (2014).
Le previsioni meteorologiche, per menzionare solo quelle emesse da organismi ufficiali, provengono in forme diverse dall’Aeronautica militare, dalla Protezione Civile, dal servizio Meteomont (corpo forestale), dal Cra-Cma (attuale nome del vecchio ufficio centrale di ecologia agraria), e da molte regioni, attraverso le Arpa o altre strutture locali. Esistono anche previsioni probabilistiche mensili e trimestrali diffuse da Cnr-Ibimet.
La situazione è ancora più confusa per quanto riguarda il clima, dato che le reti sono state regionalizzate, ma non tutte, e che Ispra cerca di raccogliere i dati dalle regioni per pubblicare un annuario sui cambiamenti climatici in corso, ma analisi o dati di questo tipo sono disponibili anche presso il Cnr-Isac e, di nuovo, il Cra-Cma e l’Aeronautica. Per quanto riguarda invece le proiezioni sul clima futuro, essenziali per progettare adeguati piani di prevenzione e adattamento, vi sono attività presso l’Ictp di Trieste, il Cnr-Ibimet, il Cmcc e l’Enea. E sono sicuro che qualche collega mi dimostrerà che sto dimenticando qualcosa.
Se avessimo una bacchetta magica sarebbe facile trasferire e riorganizzare sotto un’unica regia e struttura tutto quel che serve (e chiudere quel che non serve). Se ne ricaverebbe un’enorme diminuzione della confusione istituzionale e informativa, un aumento esplosivo dell’efficienza e dell’efficacia, e anche un recupero d’immagine del nostro paese che, anche in questo settore, è piuttosto bassa per non dire peggio. In assenza di bacchetta servirebbe “solo” una regia politica e una commissione tecnica che prepari in breve tempo una proposta concreta. Ma forse anche questo è fantascienza.
L’inverno delle alluvioni
Mentre scrivo due metri d’acqua seppelliscono la piazza di Bomporto, un piccolo paese poco a nord di Modena, che ha la ventura di trovarsi stretto tra due fiumi appenninici, il Secchia a ovest e il Panaro a est. In pianura padana i fiumi stanno stretti tra alti argini e quando sono in piena spesso scorrono pensili, sopra il piano di campagna. L’argine del Secchia in piena domenica scorsa ha ceduto (si dice che l’argine fosse indebolito dalle tane di animali selvatici, ma è ancora da dimostrare) e così un grande getto d’acqua si è rovesciato fuori dallo stretto budello dove avrebbe dovuto starsene fino al Po – in piena anche lui e quindi poco propenso a bersi pure l’acqua modenese.
Sta di fatto che da diversi anni capitano queste piene invernali, a volte per lo scioglimento improvviso delle nevi in Appennino, stavolta per tre giorni di pioggia, dopo che a Natale ne era venuta già tanta da saturare i terreni montani. Le piene un tempo erano caratteristiche delle stagioni di mezzo, autunno e primavera, ora non più. Se il maltempo arriva da sudovest passa sul Mar Tirreno che è sempre più caldo, e carica l’atmosfera di umidità e calore. Sui monti invece che grandi nevicate si rovesciano quindi grandi piogge e i fiumi – più torrenti che fiumi – si riempiono in fretta e corrono a valle.
La pianura emiliana, come si è visto anche in occasione del terremoto, è sede di uno sviluppo edilizio notevole: oltre alle zone di abitazione, che crescono per motivi legati agli alti prezzi delle città e al desiderio di “vivere in campagna”, esistono numerosissime zone artigianali e di piccola industria, che spesso vengono denominate distretti (nel modenese c’è per esempio il distretto ceramico ora molto in crisi e quello del biomedicale, che in crisi non era ma che ha subito danni ingenti dal terremoto).
Da bambini abbiamo imparato a scuola che quella padana è una pianura alluvionale, formata nel corso dei millenni proprio dalle piene e dalle inondazioni dei fiumi, un tempo liberi di andare dove volevano depositando ovunque ingenti quantità di sedimenti e detriti. Da secoli la civilizzazione ha imposto la regimazione delle acque e l’interruzione di questo ciclo a vantaggio dell’estensione dell’agricoltura prima e dell’urbanizzazione in tempi più recenti. Mantenere fuori dall’acqua la pianura è un processo attivo governato da una pletora di strutture burocratiche che vanno dai consorzi di bonifica alle autorità di bacino, alle regioni stesse (che hanno ereditato i vecchi uffici periferici governativi del genio civile e che ora si chiamano servizi tecnici di bacino). In questo momento la gestione dell’argine rotto sul Secchia è in capo a un’agenzia di recente costituzione che si chiama Aipo, che se non sbaglio ha ereditato i compiti del vecchio Magistrato del Po.
Se il clima cambia, se l’inverno non c’è quasi più, se gli animali e le piante non vanno in letargo (ho un’azalea in cortile a Bologna che ostinatamente continua a fiorire da mesi, come se fosse sempre primavera) così anche le piene cambiano stagione e possono coglierci impreparati, con un territorio sempre meno presidiato a causa delle ben note restrizioni finanziarie ma anche per la perdita di una certa intelligenza distribuita che rendeva le stesse popolazioni prime sorveglianti e custodi del proprio ambiente.
Il cambiamento climatico impone una sorveglianza e una custodia ambientale se possibile ancora più attenta. L’esasperata variabilità meteorologica cui stiamo assistendo richiede impegno molto forte sul versante della previsione e della diffusione delle allerte, ma serve un nuovo impegno sia finanziario che organizzativo per evitare il peggioramento della situazione e l’aumento ulteriore dei rischi. Anche la popolazione più attiva e coesa può cedere sotto i colpi di ripetute catastrofi come quelle che si stanno abbattendo sull’Emilia. Sarebbe bene dedicare anche a questi argomenti la discussione politica, credo.
L’anno del segnale?
Secondo un importante rapporto europeo commentato dal giornalista scientifico Fred Pearce (New Scientist del 9 novembre 2013) c’è almeno una buona notizia in mezzo al mare di quelle cattive che riguardano i cambiamenti climatici, ovvero che per la prima volta nel 2012 le emissioni serra hanno cominciato a mostrare segni di rallentamento, cioè sono sì cresciute, superando il record precedente, ma meno di quanto avevano fatto l’anno prima, e la crisi non c’entra nulla. Il Pil mondiale infatti è salito di tre punti e mezzo mentre le emissioni “solo” di un punto o poco più. In sostanza il sistema produttivo globale mostra per la prima volta la tendenza a diventare più efficiente e meno emissivo e la crescita economica si sta sganciando da quella del carbonio. Per salvaguardare il clima della Terra da riscaldamenti intollerabili le emissioni di gas serra devono drasticamente diminuire ma, un po’ come una nave che debba invertire la rotta, bisogna prima di tutto che rallentino fino a fermarsi, e solo allora si potranno far diminuire. In questo senso sembra si stiano muovendo gli Usa, che hanno smesso di aumentare le emissioni dal 2007 e sono tornati l’anno scorso al livello di metà anni Novanta (circa 5 miliardi di ton, ovvero 15 ton/testa/anno, nella Ue siamo sulle 8…). Il Pil americano ha comunque continuato a crescere ed è ora quasi il triplo di quello del ’92.
La Cina invece produce due terzi del Pil degli Usa ma le emissioni cinesi sono il doppio… siamo a quasi 10 miliardi di ton, che pro capite però scendono verso le 7 ton/anno. Ma la Cina sta finalmente avviando un grosso sforzo per rendere meno inquinante la propria economia, e un primo segnale incoraggiante è la diminuzione dell’intensità di carbonio (CO2 emessa per dollaro di Pil) che è scesa del 4,3%. In sostanza i cinesi stanno tentando di ridurre la dipendenza dal carbone e per questo puntano su efficienza, rinnovabili e, ahimè, nucleare, con molte nuove centrali in costruzione… Speriamo non debbano pentirsi di quest’ultima opzione. Buon 2014!
ps chi volesse consultare il rapporto in originale può scaricarlo da qui
Il clima che cambia e le conseguenze sull’Italia
Ho davanti a me due documenti datati settembre 2013 e dedicati al clima. Il primo, in inglese, è il riassunto “politico” del quinto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici. Inizia con una pagina piena di nomi, quelli di tutti gli autori, cui seguono una trentina di pagine molto schematiche, fitte di numeri e grafici, che tracciano il quadro del clima che cambia e soprattutto di come potrebbe cambiare ancora, in peggio. Per esempio leggiamo che di qui a fine secolo il livello globale degli oceani potrebbe salire di 40 cm – se saremo bravi a tagliare molto e in fretta le emissioni di gas serra in atmosfera – ma anche di un metro, nel caso peggiore ma tutt’altro che improbabile. Considerate cosa ha combinato la tempesta Sandy a New York l’anno scorso, e immaginate le prossime con il mare sempre più alto.
Il secondo documento è scritto in italiano, non c’è traccia di autori ma c’è il logo del ministero per l’ambiente. Si intitola, un po’ verbosamente, “Elementi per una strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” ma non contiene un numero né un grafico che consenta a chi volesse leggerlo di capire quale entità e portata avranno i cambiamenti che ci attendono in Italia. Il che è piuttosto strano, perché scopo del documento è proprio quello di comprendere cosa potrebbe succedere, e prepararsi per ridurre al minimo impatti e danni su cose e persone, e magari per cogliere qualche nuova opportunità.
Un aiuto in questo senso può venire dal lavoro scientifico di Erika Coppola (nella foto) e Filippo Giorgi, che da Trieste (sono entrambi in forza all’Ictp, un centro scientifico internazionale) analizzano per mezzo di complessi modelli fisico-matematici i possibili futuri del clima italiano, almeno dal punto di vista delle temperature e delle piogge. Come dichiarano gli autori, il nostro paese si trova al centro di una zona del mondo particolarmente sensibile al riscaldamento globale, il Mediterraneo, e proprio per questo il nostro territorio subirà notevoli conseguenze per i fenomeni in atto (già le subisce da alcuni anni, aggiungo io, ma senza una cura particolare le cose potrebbero diventare rapidamente drammatiche). Gli autori dichiarano che nonostante questa situazione dell’Italia sia nota da tempo il Paese non dispone di dettagliate proiezioni quantitative e per questo motivo nel 2007 hanno intrapreso il loro lavoro di analisi, poi pubblicato nel 2009, cioè ormai quattro anni fa… In estrema sintesi si prevede un aumento generale delle temperature, più forte in estate che in inverno. Per esempio in Italia centrale il salto termico estivo medio tra il secolo scorso (1961-1990) e quello attuale (2071-2100) potrebbe essere di ben cinque gradi, ma in caso di ondate di calore, l’aumento potrebbe raggiungere anche gli otto gradi. Come ognuno può intuire, informazioni di questo tipo sono essenziali per programmare l’adattamento sia urbano che agricolo. Ancora più interessanti per l’agricoltura sono le proiezioni riguardanti le piogge (o meglio le precipitazioni, che includono anche la neve). I dati di Coppola e Giorgi sono liberamente accessibili in inglese e sono anche confluiti in un volume italiano a cura di Castellari e Artale, che ha però la sfortuna di non essere disponibile online e di costare ben settanta euro…
Cattive notizie d’agosto
Siccome dalle fonti più diverse giungono notizie per lo più cattive in merito alle condizioni climatiche presenti e soprattutto future del nostro pianeta, e siccome le notizie si disperdono, si dimenticano e quando servono non si ritrovano più, proviamo a sintetizzare quel che si è letto in giro in questo mese di ferie (solo questioni scientificamente e tecnicamente fondate naturalmente, il resto è fuffa).
L’università californiana di Stanford per esempio ci informa che senza drastici provvedimenti i cambiamenti del clima di qui a fine secolo potrebbero avvenire con una velocità mai vista negli ultimi 65 milioni di anni, ovvero almeno dal tempo della scomparsa dei dinosauri (fonte Pasqui su fb.com).
La sezione Climate del sito americano Thinkprogress ci anticipa che il quinto rapporto Ipcc (è il comitato internazionale che segue per l’Onu il progresso degli studi e delle previsioni climatiche), in uscita il mese prossimo, confemerà la sicurezza quasi assoluta degli studiosi sulle cause antropiche (umane) del cambiamento climatico cui stiamo assistendo (fonte Cacciamani su fb.com).
Per quanto riguarda l’assorbimento della CO2 ad opera delle foreste europee uno studio recente riportato da BbcNews ci avverte che potremmo essere prossimi alla saturazione, dovuta all’invecchiamento degli alberi e alla distruzione degli stessi per incendi e altre cause antropiche. Il rapporto suggerisce anche alcune tecniche per ovviare al problema.
Un’altra fonte europea, l’Agenzia per l’ambiente con sede in Danimarca, si dice convinta che le estati sempre più torride (superati quest’anno i 40 gradi anche in Austria!) stiano provocando un serio peggioramento della qualità dell’aria con formazione di quantità pericolose di ozono vicino al suolo.
Molte segnalazioni di eventi estremi nel mondo, come in Corea, oppure nelle Filippine. Niente a confronto di quel che potrebbe succedere alle popolose città costiere se il mare non la smette di crescere, come ci riferisce la Repubblica nella propria sezione ambiente.
Terribili le conseguenze dell’eventuale rilascio in atmosfera di enormi quantità di metano che fin’ora se ne stava buono buono sotto il ghiaccio dell’artico, come discute il Guardian.
Secondo il leader della Banca Mondiale proprio nei governanti dei paesi come Cina e India, che maggiormente stanno pompando anidride carbonica in aria grazie al frenetico sviluppo economico, sta nascendo una determinazione nuova a combattere per contrastare questi rischi sempre più gravi. Speriamo sia vero. E speriamo che la Climate Policy di Obama diventi realtà e serva a qualcosa…
La musica fa bene al clima
Lo scorso 15 luglio a Carpi, poco a nord di Modena, ho tenuto una conferenza pubblica sui cambiamenti climatici. E’ una cosa che mi capita di fare una decina di volte l’anno nelle scuole o in altre sedi dove mi invitano e mi lasciano un po’ di tempo a disposizione. Questa volta però è stata diversa. Un amico mi ha chiesto di provare a combinare la conferenza con la musica, invitando sul palco anche l’orchestra popolare in cui suono. E così è venuta fuori “Una calda atmosfera“, un modo nuovo di interagire con il pubblico, peraltro piuttosto numeroso (l’evento si è svolto in una bella e antica piazza del centro di Carpi, durante la Festa della Musica). Abbiamo eseguito diversi pezzi, disposti ad arte lungo la “curva delle temperature che aumentano” e inframmezzati dalle mie diapositive e spiegazioni. Il tutto sembra aver funzionato molto bene, la piazza si è riempita, la gente è rimasta fino a tardi e ci hanno chiesto anche qualche bis!
Per vedere e ascoltare uno spezzone (10′) dell’evento cliccare qui.
Un grazie agli straordinari amici che hanno suonato con me, a chi ci ha invitato e sostenuto (Wwf di Carpi, Ceas di Carpi e coop La Lumaca), e all’Arpa che mi lascia il tempo di preparare i materiali che servono per queste conferenze. Naturalmente, se qualcuno vuole una replica, noi ci siamo!
Centomila megawatt!
Il fotovoltaico sta conoscendo una fase di esplosione esponenziale nel mondo ed ha superato i 100mila MW l’anno scorso. Il bello è che quasi il 17% di questa potenza elettrica è allacciata alla rete italiana, e dunque siamo i secondi nel mondo dietro il colosso Cina, nonostante i bastoni tra le ruote messi in campo da governissimi recenti e attuali per bloccare questo trend. Così dicono i dati forniti dall’Earth Policy Institute, creatura di Lester Brown e fonte inesauribile di informazioni importantissime per chi si occupa (non dovremmo farlo tutti?) di ambiente clima risorse ed energia. E’ bene chiarire che questi numeri sono ancora una goccia nell’oceano dei consumi energetici dell’umanità, danno però speranza per la rapida sostituzione delle fonti fossili nel settore elettrico, assai malefiche per l’ambiente e la salute, e soprattutto per il clima del pianeta. Incentivare il fotovoltaico è ancora indispensabile, va fatto con intelligenza ma va fatto. Stesso dicasi per l’eolico (in particolare marino) che insieme al fotovoltaico è l’unica fonte rinnovabile davvero pulita e priva di effetti collaterali, checché ne dicano i disinformati (o interessati) detrattori.
Una scossa elettrica a Marchionne
Impazza la polemica tra Boldrini, presidentessa della camera e Marchionne, capo della Fiat-Chrysler. La prima rifiuta l’invito a visitare lo stabilimento Fiat, dopo che il secondo aveva definito la Fiom un sindacato non rappresentativo commentando un incontro Boldrini-Landini. Dico la verità, Boldrini a me piace sia per il suo passato di impegno umanitario sia per il piglio con cui oggi dirige la Camera. Dico la verità a me Marchionne non è mai piaciuto, ma proprio per niente. E non solo per i trucchetti che mette in campo per cacciare via chi gli dà fastidio dalle sue aziende (in particolare gli iscritti Fiom) ma proprio per questioni di nessuna lungimiranza industriale. Noi siamo un paese strano, dove il sole abbonda ma le auto elettriche che facciamo (500e) si vendono solo negli Usa (tra l’altro con uno slogan demenziale, tipo “la bruttezza è la peggiore forma di inquinamento”), e solo perché lo impone la legge californiana. Nell’epoca della crisi ecologica ed economica cosa propone Marchionne? Macchinoni sempre più grossi, altri Suv per le nostre strade strette e città anguste. Ricerca? Zero. Altro che Renault e Toyota. In Sicilia gli avevano detto: invece di chiudere Termini Imerese, fanne un polo per lo sviluppo dell’auto elettrica, che al sud abbiamo un mare di fotovoltaico. Ma lui niente, una sigaretta dietro l’altra, un volo in America dietro l’altro, muro contro muro con il sindacato e i tribunali del lavoro, e avanti così, senza criterio. Boldrini gli ha scritto “Affinché il nostro paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell’innovazione, tanto dei prodotti quanto dei processi. Una via che non è affatto in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa”. Vivaddio, questo si chiama politica, dire agli industriali e agli altri potenti che fanno bene quando fanno bene e che fanno male quando fanno male. Come darle torto?