Il Vigorelli, il Flaminio e l’esempio inglese

Sul velodromo Vigorelli si è giocata una partita paradigmatica per la sinistra italiana. Da una parte il Comune di Milano, per bocca del suo assessore allo sport Chiara Bisconti, afferma che non si può restare ancorati alla nostalgia e lasciare l’impianto morire (per questo il progetto che è risultato vincente a metà aprile ha il pregio di prevedere una sostenibilità economica dell’impianto, grazie alla nuova versione “polifunzionale”). Dall’altra parte, schierati in un’inedita alleanza tra “movimentismo” ed istituzioni, il comitato per la difesa del Vigorelli e il Ministro per i Beni Culturali Massimo Bray, sostengono il valore artistico e culturale (prima che sportivo), dell’impianto che pertanto deve riammodernare la mitica pista di 400 metri e riaprire le porte al ciclismo.
In questa diatriba viene messo di tutto, dalle colpe (presunte e capziose, per chi le lancia) della Federazione Ciclistica ad una contrapposizione di sport (vedi su Rugby1823); amanti del ciclismo su pista da una parte, gli altri, a cominciare del rugby, in attesa del nuovo impianto funzionale. Ma in questa contrapposizione c’è anche altro; da una parte i malinconici, dall’altra i modernisiti (o chiamateli come vi pare).
In tutto questo frullatore di idee, supposizioni e accuse, resta in sospeso la “domanda” che divide le diverse anime della sinistra (intendiamoci, non che sia difficile). Siamo sicuri che dal punto di vista della sostenibilità la soluzione migliore sia quella di riconsegnarlo solo al ciclismo e non, come prevede il progetto vincitore, ad una serie di attività sportive moderne, come bmx, rugby, arrampicata?
Resto convinto che in Italia il nostro peggior difetto urbanistico è quello di lasciare sopravvivere gli impianti piuttosto che buttarli giù e ricostruirli, magari migliori e più efficienti. E’ stato detto, nella polemica capziosa tra i diversi sport, “se Twickenham (lo stadio del rugby dell’Inghilterra) fosse asfaltato e ricostruito, cosa direste, voi amanti del rugby?” (cosa accaduta tra l’altro ad un altro stadio storico per la palla ovale, come il Lansdowne Road).
Non saprei. So, però, che passeggiando per Londra difficilmente si incontra uno Stadio come il Flaminio, che rappresenta il monumento all’inefficienza e al gusto prettamente italico dell’assurdo. Perché per un Vigorelli che potrebbe anche rinascere in una forma diversa, abbiamo un Flaminio che, in virtù di vincoli artistici, non è utilizzato e, probabilmente, non lo sarà in futuro, fin quando non cadrà a pezzi.
Mi chiedo, è giusto tenere in vita strutture che non hanno una propria sostenibilità economica, solo per questioni culturali? E nel caso specifico, perché per proteggere un impianto sportivo si è mosso il Ministro Bray e non quello dello Sport?
La cultura preme per la sopravvivenza di un impianto che lo sport non riesce a mantenere.

Qhubeka vuol dire “progredire”, anche a Sanremo

Qhubeka è una parola nguni comune a due lingue dell’Africa del Sud, lo Zulu e il Xhosa e che vuol dire “andare avanti” “progredire”. Qhubeka è anche un progetto che mette al centro della sua azione la bicicletta e che si articola in 5 direttrici ben precise: salute, istruzione, ambiente, sviluppo e sport. Potrebbe apparire un progetto impegnativo (e per certi versi lo è), ma nella sostanza si risolve soltanto nel fornire biciclette ai ragazzi dei villaggi rurali dell’Africa del Sud. Per ottenere le bici bisognerà fare qualcosa per l’ambiente, che può essere piantare un albero o riciclare biciclette usate. Con le biciclette i ragazzi possono raggiungere più facilmente scuole e ospedali, oltreché luoghi di approvvigionamento quotidiano, spesso distanti decine di chilometri. Questo favorisce, come aspetto secondario, la pratica sportiva, con il dichiarato intento, da parte degli ideatori, di trovare il campione africano di domani.
In questi dieci anni il progetto Qhubeka ha fornito oltre 100.000 biciclette, contribuendo: alla riduzione della dispersione scolastica del 75%, all’abbattimento dei costi legati alla realizzazione di strutture sportive procapite del 90%, all’incremento dell’accesso al microcredito per attività di carattere imprenditoriale del 400%, al miglioramento della salute fisica delle comunità coinvolte. Il progetto Qhubeka in Africa sta rendendo realizzabile quello che in Occidente solo pochi visionari continuano a predicare: la bicicletta è uno stile di vita che fa bene alla salute, alla crescita, alla vita economica e all’ambiente.
Trovo straordinario tutto questo per tre motivi.
Primo, Qhubeka aiuta alcune zone del SudAfrica ad uscire dall’arretratezza economica, culturale e sociale con un modello di sviluppo non mutuato dall’Occidente.
Secondo, la bicicletta rappresenta la soluzione migliore a problemi diversi, se non addirittura contrapposti, come possono essere quelli dell’Occidente (eccesso di ricchezza, con tutto quello che ne consegue) e dell’Africa (estrema povertà).
Ultimo, ma non meno importante e per il sottoscritto addirittura esaltante, Qhubeka lega il suo nome ad una squadra di ciclismo, il Team MTN-Qhubeka, che due settimane fa ha vinto una delle corse di ciclismo più belle e difficili del panorama internazionale, la Milano Sanremo. Il successo del tedesco Ciolek è giunto a, sorpresa, al termine di una corsa massacrante, in cui la neve e il gelo hanno svolto un ruolo fondamentale. Per la prima volta nella storia del ciclismo una squadra sudafricana ha vinto una delle classiche monumento di uno degli sport più seguiti nel mondo e in Africa in particolare. Mi auguro che non sia lontano il giorno in cui potremo vedere sfrecciare per primo alla Classicissima di Primavera un ragazzo che ha iniziato a pedalare grazie al progetto Qhubeka. Vorrà dire che veramente la bicicletta può cambiare il mondo.

Quell’articolo 2 del Codice della Strada…

Mi sono imbattuto recentemente nel Codice della Strada, che dovrei conoscere, come tutti, e che invece ho scoperto solo ora, almeno nella parte relativa i principi generali, il titolo 1° (articoli 1_12). L’ho letto con l’interesse che si deve ad ogni enunciazione di principio, la quale disegna il contesto culturale in cui si muovo le regole.
L’Articolo 2, quello della classificazione delle strade, rivela la nostra profonda (in)sensibilità riguardo la mobilità. Non che non ne fossi consapevole, ma il codice della strada mette nero su bianco; e non è un bello scritto.
Chi ha tempo e voglia di leggerlo (in rete si trovano numerose versioni) si accorgerà che le strade italiane possono prevedere uno spazio specifico per le biciclette.
Non è una questione da poco. E’ come dire che le case possono essere antisismiche, ma se qualcuno le costruisce senza alcuna cautela per i problemi geologici del posto, questo non è un problema di ordine pubblico.
Così il codice della strada (anche nella più recente riscrittura del 2012) ci dice che in Italia le strade devono per forza essere realizzate ad una o due carreggiate e che possono essere percorse, con opportune cautele, anche da altri “vettori” (che siano mezzi pubblici, bici o pedoni). Verrebbe da dire “roba da medioevo” se non fosse che forse ai tempi di Dante non c’era le auto ma solo pedoni e qualche cavallo.
I problemi dei trasporti e della mobilità, come quello dell’innovazione e della sicurezza passano dagli obblighi che ci diamo. Se tra questi non figurano piste ciclabili, pannelli fotovoltaici, edifici sicuri, marciapiedi, spazi verdi (e altro), è inutile che poi speriamo di poterli realizzare in un secondo momento.
Nell’Europa civile, neanche tanto lontana dai nostri confini, pur considerando il settore dell’auto trainante per l’economia, culturalmente non si è mai commesso l’errore di pensare che l’unico mezzo di spostamento sia l’auto. Ed infatti tutte le strade, anche quelle extraurbane, prevedono piste ciclabili e marciapiedi e il sistema ferroviario (capillare e pendolare) funziona meglio del nostro.
All’inizio della crisi, eravamo nel 2009, si ragionava come lo Stato potesse intervenire nell’economia per interrompere la spirale recessiva. Si è deciso di regalare (immettere) soldi al sistema bancario, costringendolo al contempo ad acquistare bot e titoli di stato per sostenere il debito pubblico. L’effetto è stato di bruciare sull’altare dei mercati miliardi di euro, senza per questo riattivare l’economia che in Occidente passa attraverso due comparti strategici: industria dell’auto e edilizia. Se allora quei soldi si fossero investiti per migliorare sicurezza ed efficienza energetica dei nostri edifici pubblici (a cominciare dalla scuole) e nei sistemi per dimezzare la dipendenza dal petrolio per i nostri spostamenti, forse in 5 anni avremmo costruito un futuro migliore di quello che ci si prospetta. Obama ci aveva provato, definendo la crisi un’opportunità. Non è andata così negli States, figuriamoci da noi.
Però l’articolo 2 del codice della strada lo potevamo cambiare…

Fiemme 2013, Mondiali sostenibili con le foreste delle Magnifica Comunità

Nei giorni scorsi sono stati presentati i prossimi Mondiali di Sci Nordico in Val di Fiemme, che si terranno dal 20 febbraio al 3 marzo. Per Sci nordico si intendono tutte quelle discipline sportive dello sci per cui il tacco dello scarpone non è fissato allo sci stesso (definizione un po’ empirica ma che aiuta a capire).
In perfetto stile trentino, e sulla scia di quanto ormai imperante in tutte le manifestazioni sportive che si rispettano, anche i Mondiali in Val di Fiemme avranno una forte impronta “verde”. Tutti i materiali derivanti dalla filiera del legno (le strutture sportive e gli edifici temporanei, la carta dei comunicati stampa, gli opuscoli, persino la carta igienica e il podio dei vincitori) saranno realizzati con materie prime provenienti da foreste gestite in modo sostenibile, con la scelta coerente di utilizzare il legno locale della Foresta della Magnifica Comunità. Ad assicurare questa scelta il marchio PEFC, il sistema di certificazione forestale sostenibile più diffuso al mondo. Il PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification scheme) si occupa della certificazione dell’utilizzo sostenibile del legname impiegato nella costruzione di strutture. L’utilizzo del legno nell’edilizia è cosa antica quanto l’uomo; la “coltivazione” di foreste per questi scopi affonda la sue radici nella cultura nordica di rispetto di una delle maggiori ricchezze del posto. In Italia le foreste certificate coprono circa 750.000 ettari, a fronte di 10 milioni di ettari di boschi presenti (dal rapporto FAO del 2006). Stiamo parlando di circa l’8%, poca cosa rispetto a quanto accade in altri paesi. Una foresta certificata PECF è una foresta in cui l’ente proprietario rispetta alcuni principi fondamentali di sfruttamento e rimboschimento, oltreché di rapporti con le comunità locali. Insomma si tratta di “foreste coltivate”, come un campo di grano o un aranceto, con l’unica differenza che il “raccolto” è il legname per lo sfruttamente industriale, che rappresenta forse il prodotto più sostenibile utilizzabile in edilizia. Un ritorno all’antico, quindi, ma con una consapevolezza e un approccio diverso. Un’attenzione che pian piano si sta facendo largo anche nel nostro Paese. Dal sito di PEFC Italia si scopre, infatti, che circa 750 aziende ed enti hanno ottenuto la certificazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di realtà produttive che operano nel settore della piccola e media industria, dalla realizzazione di mobili ai parquet, edilizia abitativa e pubblica.
Tra le foreste certificate anche quella più grande in Italia per l’utilizzo di legname da costruzione (circa 50.000 metri cubi annui di legname da opera, pari ad un decimo della produzione di tutto il Trentino), quella della Magnifica Comunità della Val di Fiemme che ha ottenuto il riconoscimento nel giugno del 2008. .
Fiemme 2013, in un perfetto gioco di squadra, utilizzerà il legname proveniente dalle sue foreste dalla carta utilizzata per la stampa e i manifesti, al legno utilizzato per le strutture degli stadi. Le strutture messe a disposizione delle televisioni a Lago di Tesero sono la quarta opera al mondo ad essersi guadagnata la certificazione del progetto PEFC, la seconda in assoluto sul territorio italiano ad aver ottenuto la certificazione PEFC.
Sto cercando di scoprire qual è la prima…

Allora c’è vita nell’universo (calcio)!

Sparlare del calcio, quando si parla di sport, di questi tempi è come sparare sulla Croce Rossa. L’ultima riguarda quanto accaduto in un’amichevole (trovare voi il senso di una simile partita) tra il Milan miliardario di Berlusconi e la Pro Patria di Busto Arsizio. Per chi sa, anche poco, di calcio, il nome ricorda fasti e passato gloriosi prima delle guerre, quando il calcio probabilmente, come tutto lo sport associativo, simboleggiava progresso e voglia di affrancamento.
Per quanti se la fossero persa, questa la sintesi di quanto accaduto. I tifosi del Pro Patria hanno iniziato a fischiare ogni volta che un giocatore di colore del Milan toccava palla. Siccome Boateng non è italiano ma tedesco (anche se naturalizzato ghanese), all’ennesimo sberleffo ha pensato bene di fermarsi e mandare tutti a quel paese, seguito dagli altri giocatori di colore del Milan e poi da tutta la squadra.
Il sindaco di Busto Arsizio, Gigi Farioli, del PDL, ha subito stigmatizzato l’episodio con una pezza peggiore del buco: “Colpa di quattro deficienti e di quattro professionisti che non hanno saputo fare il proprio lavoro” (riferendosi ad arbitro e giocatori che hanno abbandonato il campo). Per par condicio, in palese “conflitto d’interessi” tra il suo Milan e un sindaco del suo partito, Silvio Berlusconi si è eretto paladino della lotta al razzismo, esprimendo apprezzamento per la decisione della sua squadra e affermando “assicuro che in tutte le partite, anche internazionali, ove si verificassero episodi di questo genere, il Milan lascerà il campo“. Vedremo, ma siamo ancora in attesa delle scuse ufficiali al presidente Obama, definito “abbronzato” dall’allora capo del Governo.
Tra condanne e distinguo, il calcio mostra così il vero volto della nostra società che è poi quello peggiore della politica italiana.
Mi accingevo a questa (facile) filippica contro il calcio, quando mi squilla il telefono. Dall’altra parte il presidente di una società calcio della Sicilia che lavora con bambini, dai 5 anni in su, che mi chiede dove può fargli praticare arrampicata a Catania perché: “sa, di questi tempi i ragazzi non hanno più l’abitudine a cose che noi facevano normalmente. Non giocano più per strada, stanno sempre davanti a wii e play station. Non sanno correre, saltare e hanno paura di arrampicarsi. Io mi arrampicavo tutti i giorni sui muri, sulle case, sugli alberi. Correvo e saltavo e non avevo paura. Vorrei che anche i mie ragazzi acquisissero queste capacità. Sono sicuro che gli farebbe bene, anche per il calcio…”.
Che dire… c’è vita nell’universo!

Lezioni di democrazia dal mondo dello sport

Qualche giorno fa il Board del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) ha sospeso il Comitato Olimpico Indiano (IOA) per ingerenze da parte del Governo. Un provvedimento draconiano, che mostra quanto lo sport mondiale consideri importante l’indipendenza dello sport dalla politica. L’ira del CIO è nata per questioni legate al sistema di elezione del presidente di quel Comitato Nazionale. Dal punto di vista giuridico, essendo le Olimpiadi un affare “privato” a cui partecipano i Comitati Olimpici nazionali, il CIO ci tiene a sottolineare la propria competenza, il rispetto della carta olimpica e di quei principi generali dettati dallo stesso CIO e non certamente dai governi nazionali. Lo sport olimpico è sovranazionale e scardina la giurisdizione di ogni singolo paese. In questo c’è tutta la filosofia del padre delle Olimpiadi moderne De Coubertin. Tralascio considerazioni sull’opportunità politica e sociale di mettersi contro la più grade democrazia mondiale, per raccogliere la “provocazione” del CIO e raccontare il mondo dello sport da un’ottica diversa. Non è singolare che la decisione del Board sia giunta su una questione di democrazia. I meccanismi che regolano le elezioni all’interno di un Comitato Olimpico e, a cascata per il principio di mutualità, le Federazioni sportive di tutto il mondo dovrebbero (attenzione al condizionale) essere trasparenti e basati sulla libera partecipazione di tutti.
Accade anche in Italia, ma spesso, per un facile (e a volte giustificato) sentimento antipolitico, ce ne dimentichiamo. Società sportive, Federazioni e il CONI eleggono i propri dirigenti attraverso votazioni a cui sono chiamati a partecipare tutti gli iscritti. Altro che primarie e democrazia liquida… lo sport applica la vera democrazia nel senso più antico del termine, sul modello delle polis greche. Questo può apparire scontato e neanche degno di nota, ma credo sia giusto ricordarlo quando parliamo di Federazioni sportive come “bracconi” burocratici e inefficienti (vedi la recente inchiesta di Repubblica.it). Nessun altro ente (banche, fondazioni, ministeri, Poste, Rai, Monopoli, ecc.…) in Italia è gestito da dirigenti eletti. Se va bene da tecnici o dirigenti esperti, se va male da personale politico (raramente da parlamentari; eletti, con questa legge, per modo dire…). Nessuno, in qualsiasi caso, rende conto ai soggetti che è chiamato a servire (nel senso nobile del termine).
Questo principio di rappresentanza e democrazia vale per tutti, dal più piccolo comitato regionale della più insignificante federazione, al CONI nazionale, alla presidenza del quale quest’anno concorrono in tre: il favorito Raffale Pagnozzi (Segretario Generale uscente), la novità Giovanni Malagò (politicamente trasversale e che piace soprattutto agli atleti) e l’outsider Simone Gambino, di cui ho narrato le imprese in altro post.
Senza prendere parte per nessun dei tre (anche se qualche preferenza ce l’ho) l’unico augurio che ci possiamo fare è che questo sistema di “partecipazione democratica” permetta di eleggere il migliore.
Non è sempre così… ma nessuno è perfetto.

Non c’è nulla di male a cadere, l’importante è rialzarsi

L’ultimo è stato Hector Camacho, campione del mondo ai tempi di gente tosta come Chavez, Duran, De La Hoya, Ray “sugar” Leonard (che mandò in pensione), boom boom Mancini. E’ stato ucciso con un colpo di pistola alla testa in uno squallido regolamento di conti per questioni di droga.
Prima di lui qualcosa di simile si è verificato a Grottaglie, provincia di Taranto, qualche giorno fa. Alessio Marinelli, 19 anni, freddato con diversi colpi di pistola. Era un giovane promettente, con alle spalle un titolo italiano di categoria.
Si è scritto e detto tanto del destino, maledetto, dei campioni di boxe. L’hanno definita la nobile arte, perché nella sua forma moderna si vuole nata negli ambienti cavallereschi e presuppone coraggio, forza, intelligenza e generosità. Apparato in dotazione ai cavalieri di tutte le epoche. Spesso invece è stata tacciata come disciplina disumana, al limite della mattanza, retaggio di una cultura gladiatoria, dove il divertimento consiste nel vedere soccombere fisicamente qualcuno. Per questo la Rai recentemente ha inserito questo sport (come altri di combattimento), tra quelli da non trasmettere in fascia protetta: rischio di urtare le giovani coscienze, per nulla turbate, secondo la stessa tv di Stato, dalla “pornografia” dei reality, talk e political show.
In un articolo su Repubblica di ieri, Emanuela Audisio ricorda la storia di “Macho” Camacho, della sua vita al confine tra sport e mala, e con lui anche altri angeli dalla faccia sporca che non ce l’hanno fatta. Almeno secondo il nostro sistema di valori. Da Trevor Berbik (il castigatore di Alì), ucciso con un ascia nel 2006, ad Arturo “Thunder” Gatti, morto in circostanze misteriose in un albergo in Brasile, ma anche Liston, Tyson, Panama Al Brown, Agustin “Mitraglia” Lorenzo. Alla lista potremmo aggiungere anche Carlos Monzon, che scontò 7 degli 11 anni di carcere affibbiatigli per l’omicidio della moglie, prima di morire a 52 anni per un incidente stradale.
Il pugilato è lo sport che forse vanta il maggior numero di atleti che hanno avuto a che fare con la giustizia per questioni extrasportive e troppo spesso lo si considera, con l’occhio malevolo e ben pensante, uno sport violento per violenti.
E’ vero che per dare e prendere cazzotti devi avere una carica di rabbia tale che non può nascere solo dal piacere di fare sport. Per questo spesso le palestre di boxe pescano nel sottobosco sociale della legalità, della fame e della miseria. In Italia la scuola migliore è quella campana, nel napoletano e casertano, per l’esattezza. Tatanka, il film tratto dal racconto di Saviano, ricostruisce perfettamente la funzione sociale che molti centri svolgono in queste zone. Ma basta andare a vedere un qualsiasi incontro in un palazzetto sportivo per accorgerti che l’ambiente è quello “bordiline”; facce da boxe.
Eppure l’elenco di quanti sono caduti non basta a disegnare uno sport che resta nobile non per la forza, l’intelligenza e la generosità, ma per la lista altrettanto lunga di quelli che si sono rialzati. Mi piace ricordare Muhammad Ali e Hurricane  Rubin Carter tra tutti. Il primo si riprese il titolo mondiale dopo che gli era stato tolto perché si rifiutò di partire per il Vietnam. Ai poliziotti che l’andarono ad arrestare gridò: “I Vietcong non mi hanno fatto nulla, non vedo perché dovrei sparargli. Ce l’ho di più con tutti quei razzisti bianchi americani….”. Il secondo si conquistò il rispetto e il riconoscimento della sua completa innocenza dopo 22 anni di carcere per un triplice omicidio mai commesso. Come moderni cavalieri sono diventi il simbolo di un popolo e emblemi della lotta per l’uguaglianza dei diritti; travalicando così il confine della loro popolarità sportiva.
Come disse il grande Ali una volta: “Dentro un ring o fuori non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra.”

Arrampicare è un gioco da ragazzi…

Silvia Parente in occasione di una gara di Arrampicata sportiva

Uno sport estremo, come l’arrampicata sportiva, da qualche anno è praticato con successo e divertimento anche da persone disabili. Il segreto di questo successo? Forse perché arrampicare risponde ad una delle esigenze primarie dell’uomo. Passare nella posizione eretta è il primo momento di autonomia di un bambino; poi il primo gioco (alberi, mobili, muri…). Ci arrampichiamo per vedere oltre, per capire meglio il mondo che ci circonda. E facendolo sviluppiamo competenze come l’equilibrio, la forza, l’intelligenza (in parete ci sono “problemi da risolvere”), migliorando la nostra autostima.
Gli atleti disabili si sono avvicinati all’arrampicata spesso per comprensibili questioni di carattere terapeutico. L’attività con i bambini, poi, favorisce l’integrazione visto che in parete ci si va uno alla volta, disabile oppure no, e sotto ci deve essere sempre un istruttore. Insomma i motivi che hanno portato a questa crescita sono tanti; non vorrei stare qui ad elencarli.
Quello che però ha trasformato questo sport in un’attività dal profondo valore sociale è che arrampicare pian piano è diventato un modo per superare le barriere legate alla propria condizione fisica. Ha dichiarato Silvia Parente, medaglia di bronzo alle Paralimpiadi del 2006 nella discesa libera e campionessa del mondo di arrampicata nel 2011: “Mi piace l’arrampicata perché mi permette di passare una domenica all’aperto, con gli amici. Andiamo tutti insieme in parete: disabili e normodotati… è questa la cosa più bella di uno sport.”
Così nel giro di pochi anni in Italia sono state aperte al pubblico falesie (pareti su roccia) per disabili. Nessuna barriera architettonica fino ai piedi della parete, percorso di salita illustrato in braille, doppia via per accompagnatore e atleta… La prima è stata inaugurata ad Arco di Trento (Placche del Baone), a giugno del 2011, la seconda nel Comune di Voltago Agordino questa primavera. E’ stato fatto per rispondere ad una richiesta ben precisa: sempre più disabili stanno scoperto l’arrampicata come attività sportiva “amatoriale”, da svolgere per diletto, per il piacere e il gusto di farlo.
Lo considero specchio di un’evoluzione della società, che da strutturata diventa liquida (per usare un termine che va di moda). Così come non esistono più sport estremi, appannaggio di superuomini, non esistono più settori della società di esclusiva competenza di categorie ben definite (politica, comunicazione, salute). Una tendenza di cui bisogna tener conto per navigare in queste acque, al momento, agitate.
L’arrampicata, come sempre, aiuta a guardare un po’ più lontano…

La bella storia del cricket italiano e di quella volta che ha affrontato il Marylebone Cricket Club

Una fase dell’incontro di cricket tra l’Italia e il Marylebone CC

Avevo promesso di parlare di sport low cost (sollecitato anche da alcuni interventi); vi racconto una storia, così come l’ho sentita. L’ha narrata Giovanni Malagò, candidato alla presidenza del CONI, in occasione di SportsDays. “Non conoscevo Simone Gambino (presidente della Federazione italiana cricket e “terzo uomo” candidato alla presidenza del CONI, ndr) così ho deciso, qualche giorno fa, di provare ad incontrarlo. Essendo entrambi, per una serie di coincidenze, a Venezia, lo chiamo. Mi dice “raggiungimi a Campalto, che voglio farti vedere una cosa..”. Quando arrivo lo trovo su un prato verde, tra l’argine del fiume ed alcune abitazioni. Aveva appena finito di ripulirlo da sassi e arbusti. “Vedi, mi dice, domani qui giochiamo la partita della Nazionale contro il Marylebone Cricket Club….”
Avete letto bene: una partita ufficiale della Nazionale su un campo in mezzo alla pianura padana, senza impianti, senza tribune, senza steccati, “senza soldi, facciamo quello che possiamo!”.
Incuriosito dalla storia chiamo Gambino e gli chiedo ulteriori dettagli. Mi mette in contatto con il presidente della società sportiva “proprietaria” del campo, Alberto Miggiani (bioarchitetto e lettore di rinnovabili.it) della ASD Venezia Cricket, che mi racconta com’è nata l’idea di utilizzare il suolo pubblico per un campo “ufficiale” di cricket. “Abbiamo chiesto al comune di poter utilizzare questo prato, abbiamo costruito il pitch e delimitato l’area di gioco… c’è qualche irregolarità del terreno, ma comunque è un campo che ci permette di fare attività.” Mi risponde al telefono di ritorno da Venezia, dove è andato a prendersi alcuni avanzi della Maratona (la moquette); gli servono per migliorare il campo “non buttiamo via nulla…
In occasione dell’inaugurazione, a maggio di quest’anno, l’amministrazione comunale di Campalto, al gran completo, ha ricordato che il cricket è uno sport a basso impatto ambientale.
Non so se sia vero, ma non mi interessa. Sicuramente il cricket in Italia è uno sport ad alto valore sociale. Di esso i media hanno parlato quando nel 2009 la Nazionale giovanile italiana vinse il titolo continentale con una formazione composta da ragazzi di origini diverse (anglo-italiani, bengalesi, pakistani, indiani e dello Sri-Lanka). Una Nazionale arcobaleno, così come i tesserati di questa Federazione che rappresenta, come meglio non si potrebbe, lo spirito multietnico del nostro paese.
Una federazione (DSA, per l’esattezza, ma non credo che questo sia importante) che vive con contributi minimi da parte del CONI (nel 2012 circa 80mila) ma nonostante questo, la sua attività coinvolge segmenti della nostra società che resterebbero ai margini. La pratica, anche grazie alla fantasia e al senso civico dei propri dirigenti, ha il merito di riqualificare le periferie, come nel caso di Campalto o come si è cercato di fare a Gallarate, a luglio, con il conseguente corollario di stupide polemiche.
Molti potranno obiettare che infondo il campo di Campalto non è una novità rispetto ai tanti campetti di periferia sui quali cresce (o forse è meglio dire, è cresciuta) la nostra gioventù. Probabilmente è vero, anche se se ne vedono sempre meno. Quello che però lo rende originale è che su di esso si è celebrata una partita della Nazionale, contro un avversario che forse in Italia dirà poco ma che nel mondo del cricket (tra Inghilterra, Pakistan e India, il cricket vanta circa 2 miliardi di tifosi) rappresenta il più prestigioso club della storia. Più semplicemente noto con l’acronimo MCC, è il fondatore, codificatore e a tutt’oggi depositario delle regole del gioco. Il Marylebone Cricket Club è proprietario del leggendario campo londinese di Lord’s, dove il 27 luglio scorso lo sport azzurro ha conquistato la sua prima medaglia olimpica di Londra 2012 (vincendo l’oro nella prova del tiro con l’arco maschile). Bene, proprio questo pezzo della storia sportiva mondiale che quando gioca in casa lo fa tra cappelli a cilindro e tight, è stato ospitato in un campo rubato alle mamme e ai cani, a Compalto. La forza dissacrante del gesto del presidente Gambino (più per necessità che per convinzione), così come la sua candidatura alla presidenza del CONI, con un programma di netta discontinuità con il passato, ci dice che lo sport ha più risorse di quanto si pensi e che si può vincere anche low cost. Perché, ed è questo il lieto fine della storia, la Nazionale, dopo aver perso la prima partita, nel secondo giorno di gara ha portato a casa il risultato. Come si scrive in questi casi, con somma soddisfazione del pubblico presente.

Lo sport è un lusso?

Quello che i nostri governati non hanno il coraggio di dirci è che siamo in un’economia di guerra. E’ giunto il momento per ognuno di noi di rivedere il proprio stile di vita e mettere in discussione quello che fino a poco tempo fa ci sembrava scontato. Cambiano le priorità; ciò che prima era necessario, oggi diventa superfluo, un lusso da tagliare. Per la maggior parte degli italiani (ma anche degli spagnoli, dei greci, dei portoghesi, dei francesi, ecc…) è un lusso la macchina (crollo delle vendite), la seconda casa (crollo del mercato immobiliare) ma anche la prima (aumento dei pignoramenti). E’ un lusso il telefono, le vacanze, il dentista, i libri e i giornali (tanto c’è internet…), le scarpe per ogni occasione, gli spostamenti con mezzi privati, lo stipendio fisso…
Le continue manovre di stabilità ci vogliono dire questo: quello che finora ti potevi permettere ora non puoi più. Dobbiamo rimodulare le nostre priorità e ragionare come facevano i nostri nonni in tempo di guerra, quando la povertà non era una vergogna ma la condizione maggioritaria. Non è piacevole dirlo, ma siamo più poveri. Come tali ci dobbiamo regolare, tagliando il superfluo e soprattutto rivedendo la scala di valori, mettendo in discussione addirittura capisaldi come l’istruzione e la salute (ormai in via di smobilitazione, almeno nella versione pubblica). In questo quadro complessivo che senso ha parlare di sport?
Infatti i nostri politici non ne parlano. Un po’ perché non sanno cosa dire e un po’ perché alla fine sanno che in un’economia di guerra lo sport è un lusso che nessuno si può permettere. Del resto, in ogni guerra che si rispetti si fermano i campionati e le attività sportive, in attesa di tempi migliori.
In perfetta coerenza con questo assioma, la politica italiana non sa di sport e non fa nulla per esso. Un recente studio l’UISP ha provato a calcolare l’impatto della recente manovra di stabilità sulla pratica sportiva. Introducendo la franchigia di 250 euro per le detrazioni, si colpiscono anche le spese legate all’attività sportiva dei ragazzi. Fino ad oggi era permessa una detrazione del 19% dell’importo speso. Con la “stabilità” (se non sarà modificata), la detrazione si applicherà oltre i 250 euro di spesa. Per capirci; chi spende 1000 euro l’anno per la pratica sportiva dei figli avrebbe potuto detrarre 190 euro, ma essendoci la franchigia, detrae il 19% di 750 (1000-250). Uno svantaggio, soprattutto per chi ha più di un figlio.
Il problema, nel caso dello sport, non sono gli importi complessivi (che comunque contano), ma l’approccio mentale. La pratica sportiva in Italia si poggia soprattutto sulle famiglie, che finanziano l’attività dei propri ragazzi (perché la Scuola… beh, lasciamo perdere). Un Paese che vive la sensibilità sportiva, e quella ambientale, come un problema di salute pubblica, avrebbe posto maggiore attenzione a questo aspetto, avendo il coraggio di sgravare il carico fiscale delle famiglie che investono in queste attività. Da questa classe politica (e da questi professori), per cui il massimo di sensibilità sportiva è quella di pensare agli stadi, cosa ci si poteva aspettare?
Alla fine basta un pallone (magari di stracci, come i nostri nonni) e una strada libera dal traffico (a trovarla); non costa nulla e fa altrettanto bene. Eppoi vuoi mettere, fa tanto vintage…