VENEZUELA: PANNELLI SOLARI E FRAGOLE ANDINE.

di Carlo Tacconelli
Ramon il taxista: Come ti chiami ?
Io: Carlo, seňor.
Ramon: Sei cristiano, Carlos?
Io: Ehm… non saprei… credo di si.
Ramon: Cattolico o evangelico?
Io: Mah, penso cattolico.
Ramon: Bravo, fratello, allora sei davvero un brav’uomo.
 
Così è iniziato il mio soggiorno in Venezuela, il 7 dicembre 2008.
Appena atterrato, dopo aver passato una notte di scalo in giro per Parigi, non prima di aver cambiato diversi euro sottobanco con qualche inserviente dell’Aeropuerto “Simon Bolivar” mi sono trovato subito di fronte ad una forte componente insita nella natura delle popolazioni dell’America Latina: l’attaccamento religioso.
 
Il primo dialogo in questa terra per me ancora sconosciuta è stato di difficile impatto:
 
Ramon: Il mondo è pieno di credenti ma ci sono troppe religioni.
Io: E’ vero Ramon, al mondo ci sono più religioni che bambini felici….
 
Avevo preso il taxi per recarmi alla stazione degli autobus per prendere una corriera che in 12 ore di viaggio(!) mi avrebbe dovuto portare a Merida, ridente cittadina sulle Ande Venezuelane (ma poi ho scoperto che questa cittadina non ha molto da ridere).
 
Non è stato facile districarmi dal radicale conservatorismo cattolico di Ramon, e per comprensibili motivi di cautela ho dovuto tirare fuori tutta la mia retorica, anche un po’ vigliaccamente. Ovviamente mi sono scontrato subito con una situazione non facile, che mi ha colpito e mi ha dato immediatamente diversi spunti di riflessione.
 
Mentre Ramon pigiava sul gas tra le sopraelevate di Caracas, lasciando spazio in lontananza al paesaggio di baracche e capanne dei sobborghi (altro che i peggiori bar…) qualcosa dentro di me non riusciva a placarsi: lungi da me fare revisionismo cattolico, però in effetti, è impossibile non notare ripetitivamente come la religione riesca ad attecchire laddove la povertà e l’instabilità sociale la fanno da padroni.
 
È triste riscontrare realmente ciò di cui si è sempre discusso solo a parole, di come la religione sia il cibo dei poveri, di come riesca ad instillare la necessità di fede quando la realtà non concede nessuno spazio alla speranza, di come speculi promettendo un aldilà migliore quando, effettivamente, l’aldiqua non potrebbe essere peggiore. Forse sono soltanto riflessioni estemporanee e demagogiche, ma lo scenario a cui mi sono trovato davanti non ha potuto fare a meno di evocare in me tali pensieri.
 
Ma mi sono messo l’anima momentaneamente in pace e ho continuato per la mia rotta. Il perché io mi trovassi in Venezuela è presto detto: come un anno fa, mi sono trovato a collaborare con il CIRPS (Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile dell’Università La Sapienza) in un progetto di cooperazione internazionale sull’energia solare. In particolare, in questa missione, dovevo tenere un corso di Autocostruzione di pannelli solari-termici ad una comunità andina situata a 4.000 metri di altitudine.
 
Detta così sembra facile, e infatti lo sarebbe se non intervenisse il destino beffardo a complicare le cose (ma ammetto che devo ringraziarlo per avermi insaporito la vita più e più volte). Prima di arrivare sul posto oggetto del nostro progetto dovevo incontrarmi con un professore che stava ripartendo per l’Italia affinché mi aggiornasse sullo svolgimento del lavoro. Con molta professionalità si è deciso di incontrarci l’8 dicembre su una spiaggia dei Carabi per definire i dettagli dell’operazione.
 
L’autostazione di Caracas è tremenda, piena di aguzzini che vogliono appiopparti biglietti per le destinazioni più disparate, ce n’era addirittura uno che mi ha supplicato per una buona mezz’ora perconvincermi ad andare a Maracàibo (attenzione l’accento è sulla à, la canzone ci ha plagiato la mente), io continuavo a dirgli che dovevo per forza di cosa andare da un’altra parte e lui non voleva arrendersi… è stata una scenetta invadentemente simpatica.
 
Breve descrizione degli autobus: poiché la temperatura a Caracas a dicembre è di circa 40° gli autisti guidano scalzi, si viaggia con finestrini e porte(!) aperte e radio con musica afrocubana ad altissimo volume. Con l’aiuto di qualche Dio degli Studenti riesco ad arrivare a destinazione cambiando casualmente 3 autobus nel giro di 4 ore. Trovo la prima branda e buonanotte.
 
La mattina dopo vengo svegliato dal professore che, arrivando da un viaggio di 10 ore in macchina, riesce anche a trovarmi nonostante non ci fossimo tenuti in contatto perché i cellulari italiani, prevedibilmente, non funzionano bene in Venezuela. Andiamo al porto, chiamiamo un ragazzo che con una barchetta ci porta su un isoletta dell’atollo di Chichiriviche. Passeggiata, bagno e raccolta di noci di cocco, mentre eravamo in riunione permanente e discutevamo sull’esito del progetto.
 
Il giorno dopo il professore riparte per Roma e io mi metto in viaggio per Merida. Ma al mio arrivo non trovo nessuno dei partner locali ad aspettarmi. C’è un’altra sfaccettatura del modo di fare dei sudamericani che mi affascina e mi spaventa, come un improvviso bacio sul collo da dietro: la dilatazione dei tempi.
 
Il sudamericano è il testimonial supremo della filosofia LAVORARE CON LENTEZZA. Tutto procede a rilento, lavoretti o faccende che noi italiani ci sbrigheremmo in un’ora, loro ci mettono una settimana, perché tutto va fatto con calma. Appuntamenti ritardati, orari fittizi. In sostanza nelle mie due settimane di permanenza ho fatto dei lavori che in Italia avrei completato in tre giorni.
 
Però, forse una parte di me si è ritrovata abbastanza comoda in questo spirito, in questa voglia di rallentare e guardarsi attorno, di fermarsi un attimo a pensare. In Italia non mi capita spesso di fermarmi a chiedermi il perché di quello che sto facendo, di ogni piccolo impercettibile movimento della mia vita, la motivazione che mi spinge ad eseguire ogni inutile azione : “Perché ho mangiato questo oggi? Perché ho questa maglia addosso? Verso dove sto correndo?”.
 
Vi confesso che in Venezuela ho ritrovato il gusto di lasciarmi pensare, rilassarmi, gabbare lo stress senza incappare nella noia, per riscoprire che in fondo quello che conta non è il punto di arrivo ma il viaggio stesso; e allora preferisco viaggiare a 10 km all’ora e godermi il panorama piuttosto che accelerare per arrivare prima senza aver rivolto mai lo sguardo fuori.
 
E questa volta devo dire che addirittura ho tirato fuori la testa dal finestrino (e quasi avrei preferito cadere…). Ma ho imparato tante cose. Ho capito che lo sviluppo deve essere visto come un  processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani e quindi deve avere delle caratteristiche precise: tendere alla soddisfazione dei bisogni primari, ossia garantire a ciascun individuo nutrizione, casa, salute, ma anche libertà, identità e giustizia. Essere endogeno, basato cioè sull’autosufficienza, sul “contare sulle proprie forze”, essere in armonia con la natura, cioè sostenibile; ed infine essere partecipato attraverso il coinvolgimento della società civile.
 
In Venezuela la divaricazione sociale non è, come in altri paesi del Mondo, tra Nord e Sud, bensì tra centro e periferia, tra una minoranza di globalizzati e una maggioranza di esclusi. Strumenti come il denaro o la tecnologia non devono essere trattati come strumenti di potere, ma come strumenti di diritto per tutti. Questo vuol dire dare la possibilità ad ognuno di poter esprimere il proprio sé, il proprio essere persona, e per far questo gli strumenti sono indispensabili.
 
In Venezuela la mancata affermazione del diritto all’accesso agli strumenti rende palese la situazione di emergenza in alcune aree. Cavolo non devo fermarmi più a pensare… forse è meglio spingere sull’acceleratore…
 
L’anima viola il tratta di pace che avevo firmato con lei il giorno prima e ritorna a tormentarmi Ma troppe situazioni sono surrealmente irrazionali. Non è razionale l’abitudine di bruciare aree forestali per ricavarne, nel breve periodo, terreni coltivabili. Non è razionale la deforestazione realizzata per ricavarne legname da ardere, cioè una fonte di energia.
 
Occorre imparare di nuovo l’ABC del rapporto con la natura. Per questo siamo partiti dai pannelli solari: aule all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza apprendiamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bosco, un orto trasformano l’abitazione in qualcosa di vivo di cui prendersi cura.
 
Non ho fatto in tempo a mettere piede in Venezuela che gia mi trovavo immerso nel suo fango vitale.
 
Tuttavia il progetto è andato a buon fine, grazie anche all’aiuto di chi mi ha preceduto, sono riuscito a costruire 2 impianti solari che forniscono acqua calda per 2 famiglie disagiate. Ho tenuto un corso sia teorico che pratico di autocostruzione a cui la comunità ha risposto in maniera eccezionale: ricordo che eravamo a casa della signora DulceMaria, una donna che abita in un paesino a 3.300m sulle Ande e che vive allevando una simpaticissima quanto aggressiva pecorella e coltivando patate e fragole. Da quelle parti l’acqua arriva direttamente dalle sorgenti montane tramite un tubo non interrato (quindi chiunque può andare li e sabotare) che attraversa tutto il versante delle montagne. Ovviamente l’acqua calda non esiste, a meno che qualche fortunato all’interno del villaggio possieda una caldaia a legna o uno scaldabagno elettrico, ma tanto l’elettricità non c’è tutti i giorni.
 
La sua famiglia era stata scelta come destinataria del nostro progetto, quindi abbiamo invitato tutte le persone del villaggio, adescandole con una buonissima zuppa “campesina”, abbiamo mostrato loro dei filmati sulle applicazioni dell’energia solare e poi ci siamo messi tutti insieme a lavorare come carpentieri per costruire questo pannello che alla fine è stato regalato alla famiglia della signora DulceMaria.
 
L’aspetto più interessante è stato la comprensione del fatto che la tecnologia non è una proprietà delle macchine, ma un prodotto della conoscenza umana. Gli effetti dell’uso delle macchine, e a maggior ragione la capacità di creare innovazioni tecnologiche, non dipendono tanto dal capitale fisico quanto dal capitale umano. Nel nostro caso la spinta ad effettuare una proposta di autodeterminazione tecnologica è nata dall’esigenza di trovare una soluzione ambientalmente etecnologicamente sostenibile per migliorare le condizioni igienico-sanitarie dei beneficiari di tali interventi.
 
Affinché l’innovazione tecnologica si trasferisca facilmente nel bagaglio culturale del destinatario si è pensato di utilizzare l’autocostruzione in quanto strumento di libera divulgazione e condivisione verso cui una comunità è in grado di prendere direttamente coscienza. E’ chiaro che in questo processo di “tecnologizzazione” dello sviluppo un ruolo inevitabilmente molto importante è giocato dalla popolazione, che , attraverso diverse forme di identificazione e organizzazione, si pone come attore principale all’interno di questo processo. Ed è stato stupendo vedere come i partecipanti al laboratorio di autocostruzione cercassero di imparare questa nuova tecnologia per poterla riprodurre ognuno nella propria abitazione, è stato stupendo vedere come la loro collaborazione sia stata motivata dalla voglia di aiutarsi a vicenda.
 
Questo testimonia che l’uomo si incontra nel suo bisogno e che la risposta al bisogno mobilita positivamente le persone e mette in gioco libertà e creatività. Così ci piace.
 
Vogliamo operare mossi da un ideale, sia esso religioso o umanitario, che è sempre caratterizzato da una passione per l’uomo capace di far camminare assieme per lunghi tratti uomini diversi per formazione, per cultura, per appartenenza ideologica.
 
Per molti studiosi una tecnologia sarebbe appropriata solo quando risolve i grandi problemi dell’uomo, della società e dell’ambiente, quali si presentano nelle società industriali avanzate. Questa definizione però non mi piace, in quanto la tecnologia è un mezzo, uno strumento perraggiungere certi obiettivi, con i quali non si identifica e che non sono necessariamente quelli che si propone una società industriale avanzata.
 
Viceversa, dobbiamo ritenere che una tecnologia sia appropriata quando, per effetto della sua struttura e dei rapporti che riesce a stabilire con la cultura, l’ideologia, la struttura sociale del paese in cui viene adottata, dà origine a processi che si autosostengono e riescono a far crescere le attività del sistema e la sua autonomia.
 
Appropriate a quale scopo? Senza dubbio a soddisfare i bisogni delle persone, senza ricorrere per forza a strumenti di ultima generazione, ma semplicemente attraverso diverse combinazioni di lavoro umano e attrezzature, tenendo conto della configurazione organizzativa e dell’ambiente in cui avviene l’intero processo. Una definizione che si addice anche a una radio a manovella, a un forno solare o a una tecnica di costruzione biologica. In altre parole, si tratta di far aumentare la capacità di sopravvivenza e di sviluppo della popolazione che la adotta.
 
Tiratina d’orecchie: c’è da dire che il concetto di appropriatezza non è necessariamente riferito a paesi a livello di sviluppo molto basso: una tecnologia può essere  appropriata anche rispetto a una popolazione altamente progredita. Quest’alternativa non deve essere pensata solo per il “Sud del Mondo” ma può essere applicata anche alle società più pigre suggerendo di andare più adagio per adeguare il proprio ritmo di vita all’utilizzo di energie rinnovabili, come appunto quella del sole. Un cambiamento che impone non solo la sostituzione di tecnologie, ma una rivoluzione culturale che ci spinga a rimontare in sella alle biciclette e a coltivare il nostro orticello famigliare.
 
Dopo quest’ennesima digressione non mi rimane da dire che sono tornato a casa il 23 dicembre sano e salvo, ma devo sottolineare, egoisticamente, che dopo ogni viaggio che ho fatto o missione a cui ho partecipato chi ne è uscito maggiormente arricchito sono stato proprio io.
 
Ancora oggi, dopo tre mesi dalla fine di questa esperienza di viaggio la memoria è ormai affollata da ricordi di esperienze uniche e il cuore non dimentica il sapore della terra, di questo Venezuela, che come uno “specchio” si riflette ancora nei miei occhi, spesso troppo distratti o indaffarati, a ricordarmi che a causa del progresso ci siamo separati dalla natura, dai suoi ritmi, colori e suoni; ma il benessere non deve trasformarsi nel taglio delle radici dell’uomo, nell’incapacità di percepire il fragile miracolo di essere vivi, ma nella riscoperta del legame che perdura da millenni tra tutti gli esseri umani.
 
Per questo voglio ringraziare gli abitanti di Mucuchies, Mocao, Mitivivò, Mixteque, Gavidia per l’accoglienza datami ad addolcire l’amaro retrogusto della povertà; per aver condiviso con me la nostalgia di un passato meno tecnologico e inquinato (anche a livello mentale e morale), dove tutto accadeva con un ritmo naturale e questo dava la possibilità all’uomo di “vedere” e di “sentire” la vita che pulsa intorno (e dentro) di noi, di vivere in armonia con la terra.
 
Anche quando la città (ormai frenetica) incombe con i suoi alti muri e rumori e insieme al territorio rischia di soffocare la gioia di vivere. Sicuramente in modo inadeguato, ma sincero, con questa sorta di diario di viaggio voglio anche esprimere un ringraziamento a chiunque abbia scelto di stare dalla parte dei poveri del mondo: coloro con i quali tentiamo ogni giorno di condividere quello che ci è stato dato ed ai quali, lo speriamo, possa in fin dei conti servire anche questo lavoro.
 
“Pobre no es qui no tiene dinero
Pobre es qui no tiene sueňo”
 
26 marzo 2009

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*