Non c’è nulla di male a cadere, l’importante è rialzarsi

L’ultimo è stato Hector Camacho, campione del mondo ai tempi di gente tosta come Chavez, Duran, De La Hoya, Ray “sugar” Leonard (che mandò in pensione), boom boom Mancini. E’ stato ucciso con un colpo di pistola alla testa in uno squallido regolamento di conti per questioni di droga.
Prima di lui qualcosa di simile si è verificato a Grottaglie, provincia di Taranto, qualche giorno fa. Alessio Marinelli, 19 anni, freddato con diversi colpi di pistola. Era un giovane promettente, con alle spalle un titolo italiano di categoria.
Si è scritto e detto tanto del destino, maledetto, dei campioni di boxe. L’hanno definita la nobile arte, perché nella sua forma moderna si vuole nata negli ambienti cavallereschi e presuppone coraggio, forza, intelligenza e generosità. Apparato in dotazione ai cavalieri di tutte le epoche. Spesso invece è stata tacciata come disciplina disumana, al limite della mattanza, retaggio di una cultura gladiatoria, dove il divertimento consiste nel vedere soccombere fisicamente qualcuno. Per questo la Rai recentemente ha inserito questo sport (come altri di combattimento), tra quelli da non trasmettere in fascia protetta: rischio di urtare le giovani coscienze, per nulla turbate, secondo la stessa tv di Stato, dalla “pornografia” dei reality, talk e political show.
In un articolo su Repubblica di ieri, Emanuela Audisio ricorda la storia di “Macho” Camacho, della sua vita al confine tra sport e mala, e con lui anche altri angeli dalla faccia sporca che non ce l’hanno fatta. Almeno secondo il nostro sistema di valori. Da Trevor Berbik (il castigatore di Alì), ucciso con un ascia nel 2006, ad Arturo “Thunder” Gatti, morto in circostanze misteriose in un albergo in Brasile, ma anche Liston, Tyson, Panama Al Brown, Agustin “Mitraglia” Lorenzo. Alla lista potremmo aggiungere anche Carlos Monzon, che scontò 7 degli 11 anni di carcere affibbiatigli per l’omicidio della moglie, prima di morire a 52 anni per un incidente stradale.
Il pugilato è lo sport che forse vanta il maggior numero di atleti che hanno avuto a che fare con la giustizia per questioni extrasportive e troppo spesso lo si considera, con l’occhio malevolo e ben pensante, uno sport violento per violenti.
E’ vero che per dare e prendere cazzotti devi avere una carica di rabbia tale che non può nascere solo dal piacere di fare sport. Per questo spesso le palestre di boxe pescano nel sottobosco sociale della legalità, della fame e della miseria. In Italia la scuola migliore è quella campana, nel napoletano e casertano, per l’esattezza. Tatanka, il film tratto dal racconto di Saviano, ricostruisce perfettamente la funzione sociale che molti centri svolgono in queste zone. Ma basta andare a vedere un qualsiasi incontro in un palazzetto sportivo per accorgerti che l’ambiente è quello “bordiline”; facce da boxe.
Eppure l’elenco di quanti sono caduti non basta a disegnare uno sport che resta nobile non per la forza, l’intelligenza e la generosità, ma per la lista altrettanto lunga di quelli che si sono rialzati. Mi piace ricordare Muhammad Ali e Hurricane  Rubin Carter tra tutti. Il primo si riprese il titolo mondiale dopo che gli era stato tolto perché si rifiutò di partire per il Vietnam. Ai poliziotti che l’andarono ad arrestare gridò: “I Vietcong non mi hanno fatto nulla, non vedo perché dovrei sparargli. Ce l’ho di più con tutti quei razzisti bianchi americani….”. Il secondo si conquistò il rispetto e il riconoscimento della sua completa innocenza dopo 22 anni di carcere per un triplice omicidio mai commesso. Come moderni cavalieri sono diventi il simbolo di un popolo e emblemi della lotta per l’uguaglianza dei diritti; travalicando così il confine della loro popolarità sportiva.
Come disse il grande Ali una volta: “Dentro un ring o fuori non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra.”

2 thoughts on “Non c’è nulla di male a cadere, l’importante è rialzarsi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*