La barriera corallina profonda del Mediterraneo

Le potenzialità esplorative che le nuove tecnologie permettono ai ricercatori marini non smettono mai di sorprenderci. Grazie alla possibilità di indagare con i ROV (Remoted Operative Vehicle) il fondale a grandi profondità stiamo scoprendo sempre maggiori porzioni della nostra “barriera corallina”.

Da tempo si sapeva che, a grandi profondità lungo le nostre coste, sulle pareti in discesa verso gli abissi erano presenti formazioni coralline: i coralli bianchi profondi del Mediterraneo.

I pescherecci, spesso, raccoglievano grandi ammassi morti di questi madreporari. In passato si supponeva che oramai ci fossero solo tanatocenosi, un termine scientifico per classificare le comunità di organismi oramai morti, relitti del passato.

E invece, solo una decina di anni fa, l’uso dei veicoli subacquei da ricerca ha permesso di scoprire che i coralli bianchi sono vivi anche nel nostro Mediterraneo.

Un esempio di colonia di corallo bianco nei fondali del mediterraneo (Foto ISMAR-CNR)

Una colonia di corallo bianco nei fondali del mediterraneo (Foto ismar-cnr)

La barriera corallina mediterranea è profondamente diversa da quella tropicale che tutti conosciamo, la nostra è profonda, inaccessibile per i subacquei ed ancora estremamente misteriosa.

Ma l’esplorazione del pianeta blu continua ed è notizia recente della scoperta di una formazione di coralli bianchi vivi appartenenti alla specie Madrepora oculata a 560 metri di profondità nei fondali davanti Punta Mesco alle Cinque Terre (La Spezia): questo è il risultato della recente campagna oceanografica condotta dai ricercatori del Centro Ricerche Ambiente Marino dell’ENEA di S. Teresa (La Spezia) e dalla Marina Militare.

Durante questa fase le prospezioni geofisiche sono state svolte a bordo delle navi idrografiche “Magnaghi” e “Aretusa” e le indagini sono state dirette con ROV “Pluto Gigas” in dotazione al cacciamine “Milazzo” del Comando delle Forze di Contromisure Mine (COMFORDRAG) della Marina Militare che ha permesso di identificare l’area dove sono stati rinvenuti i banchi di corallo bianco. Queste sono le spettacolari immagini appena divulgate dai ricercatori: vedi il video.

L'immagine delle formazioni di coralli bianchi vivi appartenenti alla specie Madrepora oculata a 560 metri di profondità nei fondali davanti Punta Mesco, alle Cinque Terre.

L’immagine delle formazioni di coralli bianchi vivi appartenenti alla specie Madrepora oculata a 560 metri di profondità nei fondali delle Cinque Terre osservata tramite il ROV della Marina Militare durante la campagna oceanografica dell’ENEA.

I coralli bianchi possono essere paragonati a delle vere e proprie oasi nel deserto, in quanto offrono riparo e alimentazione a molte specie. Si è infatti stimato che i reef di coralli bianchi ospitano una diversità biologica tre volte più elevata di quella dell’ambiente circostante.

Fino ad ora erano stati trovati solo nello Ionio, nel Canale di Sicilia e nell’Adriatico meridionale.

Nel 2007, durante la campagna oceanografica ARCO (AdRiatic COrals), condotta dall’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna a bordo della nave oceanografica Urania, il gruppo di ricerca coordinato da Marco Taviani (ISMAR-CNR) aveva scoperto estese scogliere coralline a coralli bianchi morti (Lophelia e Madrepora) situate a meno di 200 metri di profondità al largo di Pescara, nella zona della depressione medio-adriatica, scomparsi probabilmente a seguito dell’innalzamento della temperatura in epoca post-glaciale.

Più recentemente, un altro grande risultato scientifico è stato raggiunto dalla prima missione della campagna oceanografica ‘ALTRO’, a bordo della nave oceanografica Urania del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), nell’ambito del progetto europeo CoCoNet (Towards COast to COast NETworks of marine protected areas coupled with sea-based wind energy potential), che ha svelato l’esistenza di ambienti sommersi e formazioni calcaree di grande rilevanza scientifica mai osservati prima in nel nostro mare: i camini di pietra del mediterraneo.

Un dettaglio dei polipi del corallo bianco profondo Madrepora oculata (Foto: Andrea Gori)

Un dettaglio dei polipi del corallo bianco profondo Madrepora oculata (Foto: Andrea Gori)

La scoperta dei coralli bianchi vivi nel Mar ligure orientale di questi ultimi giorni, oltre ad aggiornare la distribuzione dei coralli bianchi nei mari italiani, offre un punto di partenza per ulteriori indagini nell’area, dove sono state segnalate altre formazioni madreporiche, e pone le basi per l’identificazione di appropriate misure di salvaguardia di questi ecosistemi di elevata importanza scientifica ma molto delicati. La Direttiva Europea Habitats (H1170 – “Reefs”) annovera infatti i coralli profondi tra gli habitat vulnerabili e di conseguenza è necessaria la loro individuazione e mappatura.

La ricerca sulla biodiversità profonda del nostro mare deve continuare ad essere sostenuta. Anche semplicemente diffondendo questo tipo di notizie.

Cristo degli abissi: sessant’anni in fondo al mare e non sentirli

Anche durante l’inizio di questa stagione estiva sono stato coinvolto come ricercatore dell’Istituto di Scienze Marine del CNR, all’annuale operazione di controllo e pulizia del Cristo degli Abissi, la splendida statua in bronzo realizzata dallo scultore Guido Galletti, posta  nel 1954 sul fondale della baia di San Fruttuoso, tra Camogli e Portofino, a 15 metri di profondità all’interno dell’Area Marina Protetta di Portofino a ricordo dei morti in mare e di quanti gli hanno dedicato la propria esistenza.

Il Cristo degli Abissi prima della pulizia con idrogetto (Foto di Massimo Durante - Vigili del Fuoco di Genova)

Il Cristo degli Abissi prima della pulizia con idrogetto (Foto di Massimo Durante – Vigili del Fuoco di Genova)

Grazie all’impegno della direttrice dell’ufficio Beni storici, artistici ed etnoantropologici sommersi della Soprintendenza di Genova, la dottoressa Alessandra Cabella, l’attività di manutenzione annuale del Cristo degli abissi viene eseguita da alcuni anni da una task-force di sommozzatori dei vigili del fuoco, dei carabinieri, della guardia di finanza e della capitaneria di porto che insieme al personale della Soprintendenza ed esperti del CNR dedica una giornata alla pulizia della statua.

Anche la statua di bronzo purtroppo, come tutti i materiali immersi in mare, viene inesorabilmente colonizzata da uno strato eterogeneo di organismi marini (biofouling) che in pochi mesi ricopre tutta la statua ed è potenzialmente in grado di creare problemi di biodeterioramento e di corrosione biologicamente influenzata dannosi per il prezioso metallo. In particolare sono gli organismi del biofouling con strutture calcaree, come i serpulidi, i balani (denti di cane), e i briozoi incrostanti a creare problemi al bronzo e alla sua naturale patina protettiva (vai ad un articolo di approfondimento).

Gli organismi del biofouling che ricoprono la statua (Foto M. Faimali ISMAR-CNR)

Gli organismi del biofouling che ricoprono la statua (Foto M. Faimali ISMAR-CNR)

Per questo motivo viene eseguita una manutenzione annuale durante la quale gli operatori subacquei dei diversi corpi si alternano per diverse ore  nella pulizia della statua mediante una speciale tecnica ad idrogetto che consente di rimuovere una grande percentuale di organismi incrostanti senza deteriorare meccanicamente la superficie del bronzo.

Gli operatori subacquei durante la fase di pulizia ad idrogetto (Foto di M. Faimali ISMAR-CNR)

Gli operatori subacquei durante la fase di pulizia ad idrogetto (Foto di M. Faimali ISMAR-CNR)

Durante questa edizione abbiamo coinvolto anche i colleghi dell’Istituto di studi sui sistemi intelligenti per l’automazione (ISSIA-CNR) che hanno messo a disposizione un piccolo ROV per riprendere le operazioni di pulizia senza intralciare il lavoro dei subacquei (vedi il video subacqueo ROV Cristo abissi realizzato da Marzio Cardellini – BluFrame).

Il minirov utilizzato per le riprese subacquee durante le fasi di pulizia (Foto Osvaldo Ciotti)

Il minirov utilizzato per le riprese subacquee durante le fasi di pulizia (Foto Osvaldo Ciotti)

Il minirov utilizzato è quello recentemente utilizzato al polo sud durante la nostra recente missione nel continente bianco per studiare la riproduzione del pesce più importante dell’ecosistema Antartico: il piccolo silverfish.

La situazione di degrado della statua sembra essere buona anche se continuano ad essere evidenti alcuni segni di corrosione nella parte destra del viso vicino alla bocca e all’orecchio. Questi segnali saranno oggetto di ulteriori indagini per scongiurare problemi più seri in futuro.

Le aree interessate dai fenomeni di degradazione sotto osservazione (Foto di M. Durante - Vigili del fuoco di Genova)

Le aree interessate dai fenomeni di degradazione sotto osservazione (Foto di M. Durante – Vigili del Fuoco di Genova)

Il Cristo degli Abissi è infatti immerso nella baia di San Fruttuoso di Camogli da oltre 60 anni è un monumento importante per tutto il territorio Ligure ed italiano e deve essere protetto e conservato. Quest’anno pertanto la festa annuale del Cristo degli Abissi assumerà un significato particolare.

La cerimonia, prevista ogni ultimo sabato di Luglio è in programma il prossimo 26 luglio: da Camogli alle 18 partirà una processione di barche diretta a San Fruttuoso ed alle 21.30 saranno spente le luci e sulla spiaggia verrà celebrata una funzione religiosa. Una processione di sub quindi depositerà una corona ai piedi del Cristo e per per l’occasione, l’Abbazia di San Fruttuoso sarà aperta per una visita notturna (dalle 18 alle 21). Per informazioni sulla suggestiva festa vedere il sito della provincia di Genova.

Sbagliare è umano…perseverare è nipponico!

Mi sono sempre definito un ecologo e non un ecologista. Spesso ho criticato chi si agita per campagne di salvaguardia di alcune “specie elette” (come i cetacei!) ignorando totalmente l’importanza di altri organismi fondamentali (come le microalghe e i batteri!) per i quali non esistono organizzazioni e volontari dedicati alla loro protezione.

Su questo argomento prometto di scrivere qualcosa di più dettagliato in futuro ma ora, contrariamente a quanto premesso, voglio seriamente parlare di cetacei e della loro salvaguardia.

Per motivi di lavoro frequento spesso il Giappone e ci sono tanti aspetti che mi affascinano di questa parte del mondo ancora tanto lontana da noi anche se uno in particolare riesce solo a farmi incazzare e distorcere le mie opinioni nei confronti dello stile nipponico: l’assurda tenacia nel proseguire la caccia alle balene spacciandola per ricerca scientifica.

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Prima di tutto vi invito vi invito a dare un’occhiata a uno delle centinaia di video estremamente crudi e rappresentativi della tecnica di pesca alle balene presenti in rete: vedi il video.

Lo scorso 3 aprile, a seguito di una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, il ministero per la pesca giapponese aveva annunciato, nonostante una profonda delusione, la rinuncia alla prossima stagione di caccia alle balene in Antartide, per la prima volta in 27 anni e ha deciso di ridurre la quota di balene catturate nel Pacifico settentrionale a 210 per l’anno corrente (170 in meno che la stagione precedente).

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Sembrava una vittoria per chi da decenni denuncia e combatte per vietare questa inutile mattanza ma a quanto pare un rigurgito nazional-nipponico di questi ultimi giorni ha generato un ennesimo passo indietro: una Commissione per la pesca – costituita da 40 membri della Camera dei Rappresentanti, la camera bassa del Parlamento – ha definito il divieto imposto dalla della Corte internazionale di giustizia dell’Aja che obbliga Tokyo a cessare le attività di caccia alla balena come «deplorevole» perché non si può porre fine a «qualcosa che fa parte della tradizione e della cultura giapponese», e ha approvato all’unanimità una risoluzione che invita il governo a prendere in considerazione «tutte le opzioni, tra cui anche la possibilità di uscire dalla Convenzione internazionale sulla caccia alle balene», per aggirare la sentenza (vedi articolo completo).

La caccia alle balene per fini commerciali è stata bandita dall’IWC (la Commissione internazionale per la caccia alle balene) con una Convenzione internazionale entrata in vigore nel 1986. L’IWC aveva comunque permesso la caccia per scopi scientifici, stabilendo soglie che variano di anno in anno.

I paese che nonostante la Convenzione internazionale continuano a cacciare le balene (fonte Sea Shepherd)

I paesi che nonostante la Convenzione Internazionale continuano a cacciare le balene (fonte Sea Shepherd).

Il Giappone ha da sempre usufruito di tale permesso emettendo un permesso “scientifico” per catturare fino a 935 balenottere rostrate, 50 balene azzurre e 50 megattere per poter condurre una ricerca scientifica essenziale sulla condizione di queste specie dopo la caccia eccessiva e senza regole del passato, e che tale ricerca è pienamente sostenibile e regolare.

La qualità scientifica delle ricerche condotte sotto questo programma di caccia scientifica è stata criticata come molto scadente; nel congresso del 2001 della Commissione Scientifica dell’IWC circa 32 scienziati sottoscrissero un documento in cui era espresso che secondo loro il programma giapponese era privo del rigore scientifico e degli standard di revisione accademica utilizzati in tutto il mondo scientifico.

La scusa della ricerca scientifica è un offesa internazionale che non deve essere accettata. Esistono sistemi di prelievo di campioni biologici che permettono di studiare i cetacei senza dover uccidere gli animali.

La realtà è che il costo annuale del “programma di ricerca” (50 milioni di dollari) si basa quasi esclusivamente sugli introiti legati al commercio della carne e i balenieri che prendono in appalto il programma di ricerca commissionato dal Governo non potrebbero continuare ad operare, e i cantieri navali che forniscono le flotte non sarebbero in grado di coprire i costi per la costruzione e la manutenzione delle imbarcazioni se il programma venisse abbandonato (vedi articolo completo).

La caccia scientifica non è quindi nient’altro che un importantissima attività economica per il Giappone.

Esiste addirittura un videogioco, sviluppato da un australiano, che simula ironizzando la ricerca giapponese sui cetacei: Harpooned – Simulatore Giapponese di caccia alle balene a scopo di ricerca: vedi il video del videogioco.

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L’Australia ha fortemente denunciato la folle mattanza di oltre 10 mila balene e aveva chiesto ai giudici dell’Aja di revocare «ogni autorizzazione, permesso o licenza». La sentenza finalmente, con il voto di 12 giudici su 16, ha infine stabilito che il governo giapponese ha effettivamente portato avanti una caccia a fini commerciali passando attraverso un presunto programma di ricerca scientifica.

Come ha precisato qualche giorno fa l’organizzazione Sea Shepherd, uno dei gruppi ambientalisti più attivi che si oppongono alla pratica della caccia alle balene con sede negli Stati Uniti, il governo e l’Istituto giapponese di Ricerca sui Cetacei (ICR) non hanno però intenzione di rassegnarsi e intendono trovare il modo per riprendere la caccia nella stagione 2015-2016.

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Sembra addirittura che, con il solito giochino delle catture a fini scientifici, siano già salpate 4 imbarcazioni super scortate dal villaggio di pescatori di Madoka con l’obiettivo di cacciare e uccidere 51 balene di una specie che non sarebbe interessata dalla sentenza entro l’11 giugno 2014 (vai all’articolo di riferimento).

Secondo un recente sondaggio, il 60% dei giapponesi ritiene di dover continuare il programma di pesca delle balene.

Commettere errori è umano ma perseverare è nipponico!!!!

Marco Faimali (ISMARCNR)

Terminata la campagna estiva in Antartide

ANTARTIDE. Con la partenza degli ultimi partecipanti alla campagna estiva in Antartide si è conclusa – il 13 febbraio – la XXIX spedizione italiana ed è stata chiusa la Base italiana (Stazione Mario Zucchelli); il personale si è quindi imbarcato sulla nave Italica alla volta della Nuova Zelanda raggiunta negli ultimi giorni di Febbraio.

La spedizione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), realizzato per il triennio 2012-2014 dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sulla base delle linee strategiche definite dalla Commissione Scientifica Nazionale per l’Antartide (CSNA), è stata attuata dal punto di vista logistico e tecnico dall’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), mentre la programmazione e il coordinamento scientifico sono stati realizzati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

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Più di 100 ricercatori sono stati coinvolti in attività di ricerca in diversi ambiti scientifici, per un totale di circa 50 progetti riguardanti le scienze della vita, della Terra, dell’atmosfera e dello spazio. I dati raccolti in Antartide saranno nei prossimi mesi elaborati presso i laboratori italiani che hanno preso parte ai progetti.

Anche presso la base italo-francese Concordia di Dome C sul plateau antartico a 3.300 m di altitudine, si è conclusa la campagna estiva con la partenza in aereo del personale che vi ha partecipato. Contestualmente ha preso il via la decima campagna invernale che sarà condotta da un gruppo di 13 esperti, 7 dell’IPEV (Istituto polare francese Paul Emile Victor) e 6 del PNRA. Le attività invernali prevedono il proseguimento dei lavori di ricerca in corso nell’ambito dei programmi antartici francese ed italiano, che riguardano studi di glaciologia, chimica e fisica dell’atmosfera, di astrofisica, di astronomia e di geofisica. Nell’ambito degli studi scientifici sull’adattamento umano in ambiente estremo proseguiranno i progetti della European Space Agency (ESA).

Questa XXIX spedizione verrà purtroppo ricordata per il grave lutto legato alla prematura scomparsa del ricercatore Luigi Michaud, dell’Università di Messina, a causa di un malore mentre lavorava in immersione nelle acque antistanti la base Mario Zucchelli. Per onorare la memoria del collega recentemente scomparso, vorrei sintetizzare, attraverso il racconto dei miei primi giorni antartici, alcune delle emozioni che spingono noi ricercatori nel luogo più freddo e più lontano dalla civiltà del nostro pianeta.

L’arrivo. L’impatto, appena scesi, è sconvolgente. Il portellone dell’Hercules si apre e si viene investiti da una luce abbagliante ed un freddo intenso ancora prima di mettere piede sul ghiaccio. Gli occhi, cercando dei riferimenti, non riuscivano a mettere a fuoco a causa del potente bagliore di quel mondo bianco che di colpo ci ha avvolto, subito dopo il freddo ci dà il benvenuto con i suoi -25°C decisamente peggiorati, come sensazione, da un vento gelido oltre i 30 nodi. Non dimenticherò quei primi istanti nel continente bianco.

 

La spiaggia della Thetis Bay vicino alla base italiana

La spiaggia della Thetis Bay vicino alla base italiana.

Le carote di ghiaccio dopo la perforazione del pack.

Le carote di ghiaccio dopo la perforazione del pack.

La Base. Veniamo letteralmente rapiti e trasportati in tutta fretta presso la base, che finalmente, dopo averla sognata in tante foto, diventa una realtà: un complesso formato da diversi strati di container su palafitte con al centro una parte elevata che ricorda una torre di controllo ed altri edifici disposti intorno all’eliporto. Siamo rimasti per molti minuti in silenzio, ad osservare, a metabolizzare il fatto di esserci davvero, ad imprimere nella memoria il bianco infinito del pack di fronte ad essa, la nostra nuova “casa”, dove passeremo la maggior parte del tempo durante la permanenza antartica.

 

La base italiana in Antartide intitolata a Mario Zucchelli (Mario Zucchelli Station)

La base italiana in Antartide intitolata a Mario Zucchelli (Mario Zucchelli Station)

L’elicottero. Il primo viaggio in elicottero non si scorda mai. Il rumore, i giri delle pale che aumentano vertiginosamente, e in un attimo ci alziamo in volo, si sorvola la base e ci troviamo direttamente sul pack che da questo punto di vista privilegiato ci appare in tutta la sua straordinaria bellezza: catene montuose innevate, ghiacciai e iceberg rimasti incastrati nel mare ghiacciato che lentamente ci scorrono sotto come in un documentario della BBC.

 

iceberg e elicottero

L’elicottero atterrato sul pack vicino ad un enorme iceberg.

 

Il volo di uno Skua il tipico volatile del continente antartico.

Il volo di uno Skua il tipico volatile del continente antartico.

 

Un iceberg rimasto incastrato nel pack ghiacciato dall'anno precedente.

Un iceberg rimasto incastrato nel pack ghiacciato dall’anno precedente.

 

Un altro iceberg nel pack davanti alla base italiana.

Un altro iceberg nel pack davanti alla base italiana.

Il silenzio. Il pilota atterra direttamente sul mare ghiacciato nelle vicinanze di Cape Washington, dove troveremo la più grande colonia di pinguini imperatore (Aptenodytes forsteri). Scendiamo e una nube freddissima di cristalli di ghiaccio lanciati a forte velocità dalle pale dell’elicottero, già ripartito, ci costringe a chiudere gli occhi per alcuni secondi e ci troviamo in un attimo in un bianco assordante silenzio. Erano anni che non sentivo un’assenza di rumore così pura.

 

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Un ricercatore cammina sul mare ghiacciato

La vita. Dopo alcuni minuti ci accorgiamo di essere osservati: una delegazione di pinguini imperatore ci guarda immobile e in silenzio. Probabilmente anche loro sono venuti a vedere un insolito spettacolo. Rimaniamo alcuni secondi a guardarci con rispetto e poi con assoluta naturalezza ognuna delle specie prende la propria strada. La bellezza di questo incontro è inimmaginabile. La sensazione è veramente quella di essere in un luogo lontano, speciale e selvaggio. Durante il volo di ritorno in elicottero, dopo le prime ore di campionamento sul pack, osservo negli occhi dei miei compagni una luce di estasi che riassume, più di qualsiasi parola, la magia di questa giornata.

Un esemplare adulto di pinguino imperatore

Un esemplare adulto di pinguino imperatore

Esemplari giovanili di pinguino imperatore

Esemplari giovanili di pinguino imperatore

 

Ho passato oltre due mesi alla base italiana e anche se non sono sicuro che si possa veramente soffrire di “mal d’antartide” già da ora, quel continente bianco, mi manca e sarei pronto a ripartire immediatamente se si presentasse una nuova opportunità di ricerca.

Con un poco di nostalgia inserisco ancora qualche scatto del meraviglioso continente bianco (cliccare per ingrandire le immagini).

 

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Se qualcuno avesse perso il resoconto “Missione Antartide: diario di un ricercatore” pubblicato da rinnovabili.it ecco i link dove trovare gli articoli:

1) http://www.rinnovabili.it/ambiente/xxix-campagna-antartica-italiana-666/

2) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-base-italiana-mario-zucchelli-station-666/

3) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-mondo-ghiaccio-666/

4) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-ricerca-silverfish-666/

5) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-la-vita-sul-ghiaccio-666/

6) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-la-vita-il-ghiaccio/

7) http://www.rinnovabili.it/ambiente/missione-antartide-viaggio-ritorno-666/

 

Marco Faimali (ISMAR-CNR)

 

Iniziato il viaggio verso l’Antartide della XXIX spedizione Italiana

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Un sogno che si avvera. Uno di quei viaggi al limite della realtà immaginati da bambino che all’improvviso diventa imminente realtà. Il 14 Agosto arriva la comunicazione ufficiale che il nostro progetto “RAISE – Ricerche integrate sulla ecologia dell’AntartIc Silverfish nel MarE di Ross” presentato al Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) è stato valutato positivamente ed è passato alla fase operativa per la prossima XXIX Campagna Antartica Italiana che inizierà alla fine di Ottobre. Potete capire meglio di cosa si tratta dando un occhiata a questa recente video-intervista.

La notizia mi arriva come un fulmine a ciel sereno durante le ferie in piena pigrizia estiva. Non riesco ancora a capire bene cosa, dove, quando…con chi…che il vortice di richieste tecnico/scientifiche in arrivo dagli organizzatori del PNRA mi assale. Dobbiamo preparare tutto il materiale e la strumentazione di ricerca entro il 23 Agosto: missione possibile? Credevo di no visto il periodo non felice….ma dopo due settimane deliranti per cercare fornitori aperti in agosto siamo riusciti a preparare le casse di alluminio con quasi tutto l’occorrente e spedirle in tempo per il loro lungo viaggio verso il sud del mondo.

Dopo le visite mediche specialistiche (presso l’Istituto Medico Legale dell’Aeronautica Militare) necessarie per ottenere l’idoneità per la campagna antartica vengono comunicate le date del corso di addestramento dei “neofiti” organizzato come sempre dall’ENEA – Unità Tecnica Antartica ed indispensabile per poter partecipare alle campagne antartiche italiane.

Senza neanche rendermene conto mi ritrovo una delle prime domeniche di settembre, nel piazzale della stazione ferroviaria di Bologna con uno zaino colmo di attrezzature semisconosciute sulle spalle.

Non dimenticherò facilmente le facce interrogative e pensierose degli altri 50 neofiti che ho incontrato appena arrivato, soprattutto perché nei giorni successivi ho condiviso in assoluta intimità un esperienza unica.

Quelle espressioni, quei visi, quelle storie mi hanno accompagnato nella prima fase del viaggio verso l’Antartide e sono diventate ….a poco a poco…..facce amiche……visi di persone delle quali ti puoi fidare.

Cinquantun sconosciuti provenienti da tutta Italia, catalogati in base alle loro potenziali attività in Antartide come “scientifici” o “logistici”, prelevati all’improvviso dalla loro normale vita e trasportati (via autobus) verso un avventura inaspettata: il corso di addestramento per la XXIX Campagna Antartica organizzato grazie alla collaborazione di ENEA-UTA con personale dei Vigili del Fuoco, degli incursori del 9° reggimento d’assalto Col Moschin e degli Alpini dell’Esercito Italiano.

Due settimane di corso intensivo organizzato ad hoc per preparare il personale tecnico e scientifico ad un ambiente estremo come quello antartico. La prima settimana del corso è stata svolta al centro ENEA sul lago Brasimone, situato sull’appennino tosco-emiliano; dove le giornate sono passate frenetiche tra sessioni orali e prove pratiche dedicate ad alcune delle attività indispensabili per “sopravvivere” in un ambiente estremo e peculiare come il continente antartico. Tuffi dal gommone con le tute protettive, arrampicate tecniche su scale a pioli, corse nel tunnel di fuoco, percorsi ad ostacoli in totale presenza di fumo, spegnimento di incendi e simulazioni di scenari di interventi di pronto soccorso sono solo alcune delle attività alle quali tutti sono stati sottoposti.

Alcuni dei corsisti durante l'esercitazione con i Vigili del Fuoco

Alcuni dei corsisti durante l’esercitazione con i Vigili del Fuoco

Una serie infinita di prove in grado di far emergere anche le paure e i limiti (fisici e psicologici), spesso inconsapevoli, dei potenziali viaggiatori antartici.

Come spesso accade in queste condizioni la prova più dura è stata la convivenza in situazioni volutamente di disagio. Non è stata l’oggettiva difficoltà ad arrampicarsi ad una scaletta a pioli a metterci in difficoltà….ma soprattutto quella di condividere la quotidianità e gli spazi con degli sconosciuti.

Il gruppo ha reagito bene e dopo pochi giorni le facce spaesate ed interrogative hanno lasciato il posto a visi increduli, entusiasti e spesso divertiti nell’affrontare, condividendole, esperienze per molti uniche e si spera irripetibili.

La temuta prova del passaggio nel tunnel di fuoco

La temuta prova del passaggio nel tunnel di fuoco

Tutto è stato affrontato con serietà e professionalità, indipendentemente dai rispettivi ruoli nella vita reale, cercando di calarsi con consapevolezza negli scenari che gli istruttori del corso avevano predisposto per noi.

La percezione di partecipare ad un avventura unica e di inestimabile valore si è fatta strada dentro di noi poco a poco regalandoci momenti emozionali molto intimi e personali. La prima settimana è passata in un attimo e quasi senza accorgercene ci siamo ritrovati sull’autobus verso la sessione montana….verso il grande freddo…..verso il ghiacciaio del Monte Bianco……per una serie di prove dedicate alla simulazione del disagio ambientale e logistico dovuto all’isolamento quasi totale dalle certezze e consuetudini del mondo reale.

Il campo base presso il lago del Verney.

Il campo base presso il lago del Verney.

Dopo una notte ospiti della Caserma “Monte Bianco”, con le guide alpine del Centro Addestramento Alpino (CAA) abbiamo preparato il materiale necessario per allestire il campo remoto di tende dove proseguire il nostro corso di addestramento. Arrivati a 2.100 metri di altitudine, presso il lago del Verney (uno dei più grandi laghi della Valle d’Aosta e situato vicino al passo del piccolo San Bernardo), le condizioni climatiche hanno subito ribadito la peculiarità del luogo selezionato: nevicata e vento freddissimo a circa 40 nodi. Nonostante il tempo tiranno le lezioni della settimana precedente e la presenza delle guide alpine hanno consentito, al gruppo di neofiti, di allestire prima del tramonto il campo completo di tende per dormire da quattro persone, tende bagno e le fondamentali “tenda magazzino” e “tenda cucina/sala lezioni”.

Per chi come me non ha mai avuto esperienza di questo tipo è stata una giornata particolarmente strana ed innovativa che è culminata, dopo il pranzo a base di razioni di sopravvivenza, in una lunga notte da incubo.

Devo ammettere che verso le quattro di notte dopo aver passato a lottare con il freddo ed un vento oltre ai 90 all’ora che ti sbatteva la parete laterale della tenda in faccia per ore come un infinita raffica di schiaffi gelati……mi sono effettivamente domandato …..ma cosa diavolo ci faccio io qui????

La nostra "casa" durante la permanenza nel campo remoto.

La nostra “casa” durante la permanenza nel campo remoto.

Devo dire che è stato l’unico momento di potenziale cedimento psico-fisico che ho provato, durato solo poche indimenticabili ore notturne, passate in una sorta di “condivisa solitudine” con altri tre compagni di tenda.

Anche le facce stravolte di tutti gli altri corsisti incontrati durante la prima colazione del giorno seguente nella tenda comune raccontavano la difficile “prima notte”.

Successivamente, l’adattabilità della nostra specie ha, come sempre, preso il sopravvento e nei giorni seguenti tutto il gruppo, me compreso, ha vissuto con serenità la vita di campo senza più manifestare particolari problemi.

Le giornate sono passate veloci scandite dalle numerose attività di addestramento (tecniche di scalata su roccia, nodologia, manovre sul ghiaccio, tecniche di sopravvivenza) e di gestione del campo.

Vivere scollegati dalle consuetudini quotidiane ci ha fatto apprezzare aspetti che troppo spesso diamo per scontati. L’uomo tecnologico, privato dei vantaggi ai quali è abituato, ha dovuto affrontare nuovamente problemi basilari quasi dimenticati, condividere gli spazi vitali, nutrirsi, lavarsi ed andare in bagno sono di colpo ritornate ad essere attività importanti per la sopravvivenza giornaliera.

Una sessione di lezione di nodologia con le guide alpine.

Una sessione di lezione di nodologia con le guide alpine.

Tutto il gruppo di incerti e impacciati “neofiti” si è trasformato in breve tempo in una vera e propria squadra ben organizzata in grado di affrontare con consapevolezza le diverse problematiche che la vita in un campo remoto imponeva.

Una delle giornate che sicuramente non dimenticherò facilmente è quella passata sul Monte Bianco a oltre 3000 metri di altitudine. L’emozione del trasporto in elicottero in quota e il paesaggio straordinario delle Alpi viste dal ghiacciaio rimarrà un’immagine indelebile nella mia memoria.

La fatica della cordata in quota e delle esercitazioni su ghiaccio sono state ripagate da un esperienza unica e indimenticabile.

Insomma la mia avventura verso il profondo sud del mondo è iniziata con una esperienza formativa fondamentale in grado di avvicinarmi con maggior consapevolezza al grande viaggio della XXIX Campagna Antartica.

Desidero per questo ringraziare tutto lo staff dell’ENEA-UTA e tutti gli istruttori militari che da sempre organizzano questo fondamentale corso di formazione.

Per gentile concessione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide.

Il biodeterioramento del Cristo degli Abissi

Nei primi giorni del mese di settembre ho avuto l’opportunità di partecipare all’intervento di controllo del biodeterioramento del Cristo degli Abissi come esperto dell’Istituto di Scienze Marine del CNR per i problemi di biofouling e biocorrosione.

cristo pulizia 1Il Cristo degli Abissi è una splendida statua bronzea realizzata dallo scultore Guido Galletti, posta  nel 1954 sul fondale della baia di San Fruttuoso, tra Camogli e Portofino, a 15 metri di profondità all’interno dell’Area Marina Protetta di Portofino a ricordo dei morti in mare e di quanti gli hanno dedicato la propria esistenza.

La posa del Cristo degli abissi è stata fortemente voluta da una leggendaria figura della subacquea italiana Duilio Marcante, che volle collocare una statua raffigurante Gesù a seguito della morte dell’amico Dario Gonzatti, avvenuta durante un’immersione qualche anno prima. Per ottenere il bronzo della statua, alta circa 2,50 metri, vennero fuse medaglie, elementi navali (perfino eliche di sommergibili americani donati dall’U.S. Navy) e campane. Nel 2003 la statua è stata rimossa e restaurata per poi essere riposizionata sott’acqua il 17 luglio 2004 su un nuovo basamento progettato dall’architetto Salvatore Trompetto. Il Cristo degli Abissi è divenuto meta di immersioni subacquee, e numerosi sono i diving center della zona che organizzano immersioni nello specchio d’acqua antistante San Fruttuoso. Ma anche se non siete dei provetti sub…..nessun problema….chi non si immerge potrà osservare il Cristo dall’alto attraverso un batiscopio o una maschera subacquea, oppure ammirare l’esatta copia del monumento posta “a secco” nella chiesa di San Fruttuoso.

Particolare del viso della statua ricoperta dagli organismi marini (biofouling)

Particolare del viso della statua ricoperta dagli organismi marini (biofouling)

Immagine della mano del Cristo degli Abissi prima dell'intervento di pulizia

Immagine della mano del Cristo degli Abissi prima dell’intervento di pulizia

Anche la statua di bronzo purtroppo, come tutti i materiali metallici immersi in mare, è soggetta al fenomeno del “biofouling” (termine tecnico per indicare l’incrostazione biologica) che con il passare del tempo è in grado di creare problemi di biodeterioramento e di corrosione biologicamente influenzata potenzialmente dannosi per il prezioso metallo.

Molti organismi marini infatti, scelgono la superfice della statua come sede definitiva della loro esistenza insediandosi in modo permanente dando origine ad una incrostazione di origine biologica (biofouling) che in pochi mesi ricopre tutta la statua. Gli organismi del biofouling con strutture calcaree, come i serpulidi, i balani (denti di cane), e i briozoi incrostanti possono creare seri problemi al bronzo e alla sua naturale patina protettiva.

Le immagini di alcuni particolari del cristo degli abissi dopo un anno dal precedente intervento di pulizia sono esplicative: la statua è letteralmente ricoperta da diverse specie di organismi marini e a stento si riescono ad apprezzare i dettagli dell’opera.

Grazie all’impegno della direttrice dell’ufficio Beni storici, artistici ed etnoantropologici sommersi della Soprintendenza di Genova, la dottoressa Alessandra Cabella, l’attività di manutenzione annuale del Cristo degli abissi è stata eseguita da una task-force di sommozzatori dei vigili del fuoco, dei carabinieri, della guardia di finanza e, per la prima volta, della capitaneria di porto.

Un operatore subacqueo mentre pulisce la mano del Cristo degli Abissi

Un operatore subacqueo mentre pulisce la mano del Cristo degli Abissi

La fase di pulizia ad idrogetto del monumento

La fase di pulizia ad idrogetto del monumento

Gli operatori subacquei si sono alternati, per oltre 3 ore, nella pulizia della statua mediante una speciale tecnica ad idrogetto che consente di rimuovere una grande percentuale di organismi incrostanti senza deteriorare meccanicamente la superficie del bronzo.

La manutenzione annuale è solo una fase dell’azione di tutela del monumento ma, nel medio periodo, se ci saranno i fondi necessari si potrebbe ipotizzare uno studio dedicato all’ottimizzazione del sistema di pulizia monitorando la tipologia di insediamento degli organismi che ricoprono la superficie della statua.

Il viso del Cristo degli Abissi dopo la pulizia ad idrogetto

Il viso del Cristo degli Abissi dopo la pulizia ad idrogetto

L'effetto dell'idropulizia sulla mano del Cristo degli Abissi

L’effetto dell’idropulizia sulla mano del Cristo degli Abissi

La vita segreta delle meduse

Recentemente sono riuscito a fuggire con la mia compagna in Sardegna per una breve vacanza dedicata ad una serie di immersioni subacquee nelle splendide acque dell’area marina protetta dell’isola di Tavolara – Punta Coda Cavallo.

Come sempre siamo tornati dal nostro amico Fabio Dolino del Blu Infinito Diving Center di Capo Coda Cavallo (http://www.bluinfinito.it/che ci ha preparato una serie di doppi tuffi giornalieri nei più prestigiosi siti di immersione attorno alle isole di Tavolara, Molara, e Molarotto.

Come spesso accade, questo tipo di vacanza diventa quasi un lavoro, specialmente per chi come me ha il vizio della fotografia subacquea. Sveglia presto alla mattina, preparazione dell’attrezzatura subacquea e fotografica, uscita in mare in gommone con due immersioni consecutive e ritorno a terra nel primo pomeriggio. Il tempo per dedicarsi ad altro diventa limitato, la sera e la stanchezza arrivano presto ed è già ora di risistemare l’attrezzatura per il giorno successivo, specialmente se nel pomeriggio la straordinaria bellezza del luogo ti “costringe” a dedicarti anche alla fotografia terrestre.

Nei dintorni della Tavolara lo scenario emerso è veramente spettacolare: spiagge incredibili, dune di sabbia, stagni e stagnoni ricchi di vita, macchia mediterranea strepitosa, paesaggi costieri mozzafiato, insomma ……un vero esempio della bellezza e della diversità del nostro territorio costiero. Vi propongo qualche scatto che spero riesca a rendere l’idea.

Una suggestiva visuale della Tavolara e delle coste limitrofe ripresa da una torretta di avvistamento (Foto di M. Faimali)

Una suggestiva visuale dell’arcipelago della Tavolara e delle coste limitrofe ripresa da una torretta di avvistamento (Foto di M. Faimali)

Uno scorcio della splendida spiaggia "La Cinta" che separa il mare aperto dallo stagno di S. Teodoro. (Foto di M. Faimali)

Uno scorcio della splendida spiaggia “La Cinta” che separa il mare aperto dallo stagno di S. Teodoro. (Foto di M. Faimali)

Lo stagnone di San Teodoro (Foto di M.Faimali)

Lo stagnone di San Teodoro (Foto di M.Faimali)

Un gruppo di cormorani si asciugano al sole (Foto di M. Faimali).

Un gruppo di cormorani si asciugano al sole (Foto di M. Faimali).

Ma torniamo nel blu, sott’acqua, dove nonostante la mia lunga esperienza subacquea, solo durante questo ultimo viaggio ho vissuto per la prima volta l’esperienza che mi ha spinto a scrivere questo articolo.

Durante una delle ultime immersioni alla secca del Papa ci siamo ritrovati in un area battuta da una forte e regolare  corrente che trasportava del particellato biancastro in sospensione che assomigliava ad una “bufera di neve” in grado di disturbare la vista donando un senso di fastidio alla maggior parte dei subacquei che formavano il nostro gruppo. Quello che per i più era un inutile e fastidiosa sospensione è stata per me, la mia compagna e la nostra guida (Fabio) un’incredibile esperienza che ci ha permesso di assistere ad un fenomeno ecologico straordinario: la riproduzione asessuata delle meduse.

Le microscopiche particelle trasportate dalla corrente in questo infinito fiume iridescente non erano altro che milioni e milioni di larve di medusa appena nate che iniziavano il loro lungo viaggio nel pianeta blu. Bastava infatti fermarsi un attimo ad osservare da vicino questa “nevicata marina” per rendersi conto, mettendo a fuoco nel dettaglio, che le particelle in sospensione erano in realtà delle Efire, lo stadio giovanile della fase natante delle meduse, piccoli organismi a forma stellata (in effetti molto simili geometricamente ai fiocchi d neve!) in perenne e frenetica pulsazione nel disperato tentativo di non affondare.

Un immagine al microscopio ad epifluorescenza di una efira di medusa. Le particelle visualizzate in rosso sono microalghe simbionti (Foto ISMAR-CNR)

Un immagine al microscopio ad epifluorescenza di una efira di medusa. Le particelle visualizzate in rosso sono microalghe simbionti (Foto ISMAR-CNR) presenti in alcune specie.

Non tutti sanno che le meduse hanno un ciclo vitale estremamente complesso che generalmente prevede fasi di vita profondamente diverse. La forma più conosciuta delle meduse (quella con ombrello e tentacoli) è generalmente lo stadio adulto della fase planctonica (e quindi natante) di questi meravigliosi organismi marini.

A questo stadio generalmente le meduse hanno i sessi separati e si riproducono sessualmente rilasciando uova e spermatozoi in acqua che, a fecondazione avvenuta, generano una microscopica larva piatta semitrasparente chiamata Planula. La Planula nel giro di poco tempo arriverà in contatto con un substrato sul fondo ed originerà la fase “non natante” del ciclo vitale di questi animali, il polipo, che resterà ancorato al substrato generando asessualmente una vera e propria colonia che può apparire come un “tappetino” di microscopici e fluttuanti polipi tentacolati. Ogni singolo polipo della colonia, generalmente in base a numerosi fattori fisiologici e ambientali (specie, temperatura, ambiente, età, alimentazione ecc) è in grado di generare, grazie ad un fenomeno riproduttivo chiamato strobilazione, il primo stadio della fase planctonica (Efire) che verranno rilasciate in un preciso periodo dell’anno.

Immagine al microscopio ottico di un polipo di medusa durante la fase di strobilazione e di rilascio delle efire (Foto ISMAR-CNR).

Immagine al microscopio ottico di un polipo di medusa durante la fase di strobilazione e di rilascio delle efire (Foto ISMAR-CNR).

Noi, quel giorno, ci siamo immersi esattamente durante questo magico momento ed abbiamo assistito in diretta al rilascio delle efire da parte dei polipi.

Le Efire sono destinate a diffondersi, crescere e diventare la forma adulta delle meduse che noi conosciamo. Ovviamente solo poche di loro riusciranno a concludere il ciclo vitale e la maggior parte sarà cibo (plancton) per i livelli superiori della catena trofica marina.

Per darvi un idea realistica delle Efire e del loro movimento vi allego un breve filmato registrato utilizzando un microscopio ottico di alcuni esemplari di Efire di una medusa che, dallo scorso anno, alleviamo per scopi di ricerca presso il laboratorio di ISMAR l’istituto del CNR presso il quale lavoro.

Video delle pulsazioni delle efire al microscopio (video ISMAR.CNR).

Video delle pulsazioni delle efire al microscopio (video ISMAR.CNR).

Da circa un paio di anni stiamo sviluppando un progetto di ricerca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, per standardizzare una metodologia di laboratorio per poter utilizzare le efire come modello biologico per test ecotossicologici in grado di valutare la qualità dell’acqua ed evidenziare la tossicità di composti chimici tradizionali ed emergenti. L’inizio di questa ricerca era stato annunciato durante una trasmissione televisiva durante la quale le meduse e le efire erano state portate in studio durante una mia intervista insieme a Dario Vergassola.

Non appena il protocollo metodologico del test ecotossicologico sarà standardizzato le efire, con le loro pulsazioni, potranno diventare delle vere e proprie “sentinelle del mare” in grado di farci capire se un campione di acqua è inquinato o meno.

Se le meduse vi affascinano e volete approfondire l’argomento consiglio di cercare in rete notizie sul Prof. Ferdinando Boero, il maggior esperto nazionale di meduse ed ecologo di fama internazionale che ho il piacere di poter considerare come amico oltre che collega. Tanto per cominciare vi propongo subito una recente intervista televisiva che Nando ha rilasciato durante una puntata di Geo-Magazine su Rai 3.

Inoltre vi segnalo che anche quest’anno prosegue l’attività di Meto-Meduse il progetto di monitoraggio delle meduse, in collaborazione con la rivista Focus, che consente di verificarne in rete la la loro distribuzione nel Mar Mediterraneo.

La piccola pesca nel mare europeo

In un articolo precedente avevo già affrontato brevemente l’argomento ma ora, l’imminente voto alla Commissione pesca del Parlamento europeo, legato all’utilizzo dei fondi pubblici per il settore pesca previsto per il 10 Luglio, mi ha stimolato ad approfondire nuovamente la problematica della sostenibilità della pesca nel mare europeo.

Quale è il mare d’europa?

L’Europa è circondata da diversi bacini (mari e oceani) che bagnano i 70 000 km di costa sulla quale vive quasi la metà della popolazione europea: a nord il Mar Glaciale Artico, a nord-ovest e ovest l’Oceano Pacifico, a est il Mar Nero e a sud il Mar Mediterraneo.

Le regioni marittime generano circa il 40% del PIL dell’UE e il 90% del commercio con l’estero avviene per mare.

Il mare nostrum è quindi il “mare del sud” del continente europeo e viene spesso dimenticato dalle nordiche decisioni del Parlamento Europeo. Il prossimo 10 luglio la Commissione Pesca del Parlamento europeo è impegnata in un voto che potrebbe generare un impatto negativo per la gestione del nostro mare considerando che attualmente oltre l’80% delle sue risorse ittiche sono abbondantemente sovrasfruttate.

Soprattutto per il mar Mediterraneo, in questi tempi di crisi occupazionale, bisognerebbe puntare verso dei finanziamenti in grado di sostenere un maggiore sviluppo della piccola pesca costiera a basso impatto ambientale e non tornare ai finanziamenti pubblici per la pesca industriale come previsto da questo pericoloso voto del Parlamento Europeo.

Oltre l’80 per cento dei pescherecci della flotta europea (circa 70.000 imbarcazioni) esercita infatti la “piccola pesca costiera” che si contraddistingue per i bassi valori di stazza lorda, lunghezza e potenza motore delle imbarcazioni utilizzate. L’articolo 26 del Regolamento (CE) n° 1198/2006 del Consiglio dell’Unione Europea descrive la “piccola pesca costiera” come la pesca praticata da navi di lunghezza fuori tutto inferiore a 12 metri che non utilizzano attrezzi trainati.

Quando si parla di “pesca artigianale” o “piccola pesca”, ci si riferisce a quella tipologia di pescatori che hanno tre principali caratteristiche in comune: usano attrezzi a basso impatto ambientale (riducendo al minimo gli scarti di pesca); sono spesso i proprietari delle imbarcazioni su cui lavorano e pescano quanto necessario per sostenere le loro famiglie ho quelle delle loro cooperative. Gli attrezzi tipici della “piccola pesca” sono le “reti da posta”, i “palangari” e le “nasse”. La flotta della piccola pesca italiana è una delle flotte più importanti in Europa, dopo Spagna e Inghilterra.

La pesca con la lampara un tipico esempio di piccola pesca costiera (Foto M. Faimali)

La pesca con la lampara un tipico esempio di piccola pesca costiera (Foto M. Faimali)

Generalmente, questa tipologia di pesca rispetta i limiti naturali del mare, seguendo criteri di gestione suggerite, oltre che dalla normativa, dalle tradizioni e consuetudini del mestiere che impongono comportamenti impliciti di sostenibilità mirati ad una particolare attenzione nei confronti delle risorse ittiche del mare di cui vivono: se il pesce finisse questi pescatori non potrebbero andare “altrove” come i grandi pescherecci industriali. Anche in questo settore il concetto del “chilometro zero” può generare sostenibilità.

Purtroppo, nonostante il comparto “piccola pesca” comprenda la maggior parte dei pescatori europei e dovrebbe avere un accesso privilegiato alle risorse europee, riceve solo il 20% delle quote di pesca. Il rimanente 80% va alle grandi flotte industriali che pescano in modo distruttivo.

La piccola pesca costiera rappresenta una formidabile opportunità per il Mediterraneo (Foto M. Faimali)

La piccola pesca costiera rappresenta una formidabile opportunità per il Mediterraneo (Foto M. Faimali)

Per troppo tempo questi pescatori sono stati penalizzati dalle politiche della pesca: ecco perché l’accordo raggiunto a fine maggio dal Consiglio della Pesca e dal Parlamento Europeo, dopo quasi due anni di negoziazioni, che ha rappresentato un inaspettato passo avanti verso un testo finale della riforma della Politica Comune della Pesca, rischia di regredire se l’imminente voto permetterà nuovamente l’utilizzo dei fondi pubblici europei per la costruzione di nuovi pescherecci alimentando la sovracapacità di pesca.

Se questo accadrà, l’Europa farà un passo indietro nelle politiche di gestione della pesca proseguendo nella miope direzione di una pesca sempre più insostenibile.

I sussidi, dovrebbero essere utilizzati per organizzare strategie per il recupero degli stock ittici e finanziare la piccola pesca garantendo un maggiore, quanto sostenibile, aumento delle catture nel lungo periodo per i pescatori, piuttosto che finanziare la costruzione di nuovi super-pescherecci aumentando la potenzialità di fuoco della pesca industriale.

È infatti sempre più necessaria una politica comunitaria volta al rilancio della piccola pesca costiera, ancora debole nei tavoli tecnici e politici, ma fondamentale per la conservazione della memoria storica delle tradizioni, per il prezioso contributo all’alimentazione, per la tenuta occupazionale nel settore (e come conseguenza la sua valenza sociale) e per la gestione sostenibile delle risorse ittiche costiere.

Vedremo tra pochi giorni quale sarà la logica che prevarrà in Europa.

Per un ulteriore approfondimento: leggi il report di Greenpeace.

Una fase della "levata" della Tonnarella di Camogli (Foto di M. Faimali)

Una fase della “levata” della Tonnarella di Camogli (Foto di M. Faimali)

Un Gommone Rosa a Camogli

 

A quasi un anno dal primo evento, il Gommone Rosa torna al diving che l’ha visto nascere, il B&B Diving Center di Camogli che, insieme al gruppo subacqueo “I 40 ruggenti”, ha organizzato la 10° edizione di questa splendida iniziativa subacquea itinerante a sostegno di Amnesty International, la ONG che nel 2004 ha lanciato la campagna mondiale “Mai Più Violenza Sulle Donne“.

Locandina Camogli

L’onda rosa presso il B&B Diving Center di Camogli

Il progetto di sensibilizzazione “Gommone Rosa” è stato ideato e lanciato nel Luglio 2012 da Claudio Tovani, istruttore subacqueo di Milano, per richiamare l’attenzione sul fenomeno della violenza sulle donne e divulgare i dati raccolti da Amnesty International.

Si parla di Gommone Rosa ogni volta che Claudio e il suo staff organizzano un’immersione con almeno 5 amiche subacquee presso uno dei diving e dei gruppi subacquei che di volta in volta decidono di ospitare l’evento. Il Gommone Rosa non è riservato soltanto alle donne. Al contrario, sono benvenuti amici, fidanzati e mariti delle subacquee che compongono l’equipaggio, nonché chiunque simpatizzi con l’iniziativa.

L'onda rosa presso il B&B Diving Center di Camogli

L’onda rosa presso il B&B Diving Center di Camogli

Anche per questa edizione la partecipazione è stata un successo. L’ondata rosa organizzata da Giulia e Roby del B&B Diving Center e Bebo Zatti e i suoi fantastici “40 Ruggenti” ha coinvolto tutta Camogli portando un’allegria contagiosa che ha caratterizzato tutta la giornata della cittadina Ligure. Per capire l’atmosfera date un’occhiata ad alcuni scatti rappresentativi del “contagio rosa”.

Come sempre i partecipanti hanno ricevuto l’attestato di partecipazione durante un meraviglioso aperitivo presso il Castello della Dragonara di Camogli ed il ricavato della raccolta fondi è stato integralmente versato ad Amnesty International e al Centro Di Accoglienza Per Non Subire Violenza di Genova.

Grazie a Marzio Cardellini è possibile anche vedere una video-sintesi dell’evento (vedi il video). Tovani e il Gommone Rosa propongono immersioni con cadenza mensile, appoggiandosi ai diving e ai gruppi subacquei che di volta in volta decidono di ospitare l’evento. Il viaggio del Gommone Rosa non si ferma e le iscrizioni sono aperte a tutti, a condizione però che siano presenti almeno cinque donne subacquee.

Il Gommone Rosa in partenza a Camogli

Il Gommone Rosa in partenza a Camogli

Per qualsiasi informazione sulle prossime uscite del Gommone Rosa: http://www.claudiotovani.com/Il-Gommone-Rosa.html.

Voci dall’Antartide – Vol. 4

Come ultimo post per il 2013 dedicato all’Antartide voglio presentarvi un’intervista al ricercatore che ha consentito nei mesi precedenti il nostro collegamento a puntate (vedi post precedenti nel blog BluLab) con la base italiana antartica durante la XXVIII spedizione italiana estiva da poco conclusa.

Ricordo che in Antartide, oltre alla Stazione Italiana Mario Zucchelli, che viene utilizzata solo per l’estate antartica, è operativa per l’intero anno anche la base italo-francese Concordia (Dome C) dove anche quest’anno (nona campagna invernale) 15 ricercatori-tecnici proseguiranno il lavoro di ricerca nell’ambito dei programmi antartici congiunti con la Francia.

La Stazione Concordia si trova sul plateau antartico a 3.200 m di altitudine, e rimane in completo isolamento per nove mesi (febbraio-novembre), con temperature esterne che raggiungono i -80°C. Nonostante le basse temperature, i ricercatori dovranno lavorare spesso all’esterno per proseguire gli studi di glaciologia, chimica e fisica dell’atmosfera, di astrofisica, di astronomia e di geofisica. Continueranno, inoltre, analisi e test medici sui partecipanti per lo studio dell’adattamento dell’uomo in un ambiente così estremo nell’ambito di progetti scientifici in collaborazione con la European Space Agency (Esa).

Proprio per cercare di capire meglio cosa significa per un ricercatore vivere in un continente estremo come quello antartico ho deciso di realizzare un’intervista a Marino Vacchi, un ricercatore di ISPRA e ISMAR-CNR che nei mesi precedenti è stato il nostro collegamento con l’Antartide.  Subito dopo il suo ritorno dalla campagna estiva mi ha concesso una mini-intervista che ora vi propongo.

Marino Vacchi (in piedi) e Paolo durante una fase del campionamento di carote di ghiaccio antartico

Marino Vacchi (in piedi) e Paolo Guidetti durante una fase del campionamento di carote di ghiaccio antartico (Foto Paul Nicklen).

 

 Da quanto tempo partecipi alle spedizioni in Antartide?

 Ahimè…. da tanto, veramente tanto.  25 anni.

La mia prima volta risale all’estate australe 1987/88. A quel tempo si effettuava un unico lungo periodo di spedizione. Si partiva in nave dalla Nuova Zelanda, in Novembre e si arrivava, salvo problemi alla nave e se il ghiaccio non rallentava troppo la navigazione, dopo una decina di  giorni di traversata.  Si cominciava il rientro a fine febbraio, con il mare già in fase di ricongelamento. A quel tempo esisteva solo una base, a Terra Nova Bay, ancora  in costruzione. Eravamo alla terza spedizione italiana.  Era ancora lontana  la possibilità di atterrare sul pack con aerei (C-130) che permettono attualmente di raggiungere la base  con un volo di circa 10 ore. A quel tempo anche le comunicazioni con chi restava a casa erano difficili. Non c’era naturalmente posta elettronica e si telefonava dalla nave tramite un ponte radio via Roma radio. Era davvero un’altra  epoca. Da allora sono tornato in Antartide 15 volte, sia alla base italiana che in altre basi ed ho spesso lavorato a bordo di navi  durante campagne oceanografiche in zone antartiche e subantartiche. Una delle campagne più particolari alla quale ho partecipato è stata a bordo della nave americana Palmer (campagna ICEFISH) durante la quale abbiamo lavorato in aree subantartiche nel settore Atlantico, partendo in inverno da Punta Arenas e sbarcando a Cape Town. Durante questo viaggio, oltre ad aver campionato specie di pesci di eccezionale interesse, ho potuto visitare  la South Georgia dove riposa il grande esploratore antartico Shackleton, una delle personalità più carismatiche della fase eroica dell’esplorazione polare.

L’ultima isola visitata durante ICEFISH è stata Tristan da Cunha dove, ben prima di me altri liguri avevano messo piede (e radici). Basti dire (la storia è lunga, avventurosa  e mi porterebbe fuori tema) che REPETTO e LAVARELLO sono  cognomi molto comuni laggiù (come a Camogli).

 Quali sono le temperature minime alle quali sei stato?

Alla Base Italiana, attualmente il nome è “Mario Zucchelli,  in ottobre (periodo di apertura) ci sono temperature di -15°,- 20° C nelle zone meno esposte alla insolazione. Queste temperature sono del tutto sopportabili con i nostri equipaggiamenti per il lavoro di campo, a patto che non ci sia vento forte. La presenza di vento peggiora di molto la situazione, per effetto del cosiddetto “wind chill”.  Per esempio un vento di modesta entità (diciamo velocità 10 nodi) con temperatura misurata di -15°C produce  gli effetti di un raffreddamento che corrispondono ad una esposizione a -25°C.

Immagine aerea della Base Italiana in Antartide Mario Zucchelli (Foto di Paul Nicklen)

Immagine aerea della Base Italiana in Antartide “Mario Zucchelli” (Foto di Paul Nicklen).

 È stato necessario seguire un training di preparazione prima di arrivare?

Si. Tutto il personale che partecipa alle spedizioni deve superare  un corso di addestramento. Il corso dura circa due settimane e comprende una prima parte  presso il centro ENEA del Brasimone  (Appennino tosco-emiliano) e una seconda presso il Centro Addestramento Alpino ad Aosta. La prima parte è di preparazione generale, con lezioni teoriche, addestramento al primo soccorso, anti incendio e simulazioni di incidenti in acqua. Nella seconda parte, di solito sul versante italiano del Monte Bianco, vengono effettuate esercitazioni di campo, come allestimento di tende,  manovre sul ghiaccio (cordate, recupero da crepaccio); si apprendono tecniche di sopravvivenza; si prova a guidare  mezzi speciali (cingolati e/o motoslitte); ci si esercita anche nell’utilizzo di radio da campo e  GPS.

Il corso si fa una sola volta ma per partecipare ad ogni spedizione bisogna sempre superare una visita di controllo sanitario molto accurata, da cui deve risultare una  idoneità attestata dagli Istituti Medico Legali dell’Aeronautica Militare.

Quale è stata la tua attività di ricerca durante questa spedizione?

L’attività è parte del un progetto di ricerca di ecologia che sto attualmente coordinando. Il progetto si intitola: “Vulnerabilità dei pesci polari al cambiamento climatico: ciclo vitale, habitats e relazione con il ghiaccio marino in “Antarctic silverfish” (Pleuragramma antarcticum).

L’Antarctic  silverfish è piccolo pesce al centro delle catene trofiche antartiche e sostentamento   diretto o indiretto di tutti predatori di apice, dai pinguini alle foche, ai cetacei. Nel  2004 avevo trovato enormi quantità di uova di silverfish in fase avanzata di sviluppo embrionale sotto la banchisa, tra cristalli di ghiaccio, a temperature al limite del congelamento (-1.92°C).

Esemplari di Antarctic silverfish (Foto di Marino Vacchi)

Esemplari di Antarctic silverfish (Foto di Marino Vacchi).

Sto effettuando campagne di monitoraggio per misurare  l’estensione dell’area di riproduzione del silverfish (l’unica nota fino ad oggi) e soprattutto per capire la relazione di questa specie con il ghiaccio marino durante il  ciclo vitale. Le domande alle quali tento di dare una risposta sono:

La riproduzione del silverfish avviene obbligatoriamente sotto la copertura di ghiaccio, in pieno inverno australe?

Se sì, quale è il grado di vulnerabilità di questa specie di fronte alle variazioni nelle dinamiche di formazione stagionale del ghiaccio antartico, legate all’attuale cambiamento climatico?

Quali possono essere gli effetti sulla consistenza delle popolazioni di Pleuragramma antarcticum e quali i conseguenti effetti destabilizzanti negli ecosistemi costieri in cui questa specie svolge un ruolo così cruciale?

Bene, anche questa ultima spedizione a Terra Nova bay  è stata fatta per cercare di  dare delle risposte. Ho raccolto campioni di larve, giovanili e di adulti di silverfish,  per valutarne l’età dalla schiusa (larve e giovanili),  e lo stato riproduttivo (adulti)  e collocare temporalmente il momento stagionale della riproduzione.Ogni tassello di conoscenza sul ciclo vitale del silverfish e sul suo rapporto con ghiaccio marino, è un passo in avanti nella nostra conoscenza e capacità di valutare il grado di vulnerabilità di questa specie  e degli ecosistemi di cui fa parte di fronte ai cambiamenti climatici in corso.

 Come puoi descrivere l’ambiente del continente Antartico?

Il ghiaccio, nella sua grandiosità è l’aspetto che più di tutto caratterizza l’ambiente Antartico. Dai ghiacciai che scendendo dalla calotta glaciale arrivano direttamente in mare creando “lingue di ghiaccio” galleggianti lunghe decine di km da cui si distaccano i grossi icebergs tabulari. Il ghiaccio marino che si forma per rapido congelamento della superficie del mare all’approssimarsi dell’autunno antartico; si produce dapprima il cosiddetto “pancake ice” (ghiaccio a frittelle), destinato rapidamente a compattarsi per formare l’immensa  copertura  di oltre 2 metri di spessore che ricoprirà durante l’inverno gran parte dei mari antartici per oltre 20 milioni di chilometri quadrati.

La caratteristica conformazione del ghiaccio a "frittelle" (Pancake Ice - Foto di Volker Siegel)

La caratteristica conformazione del ghiaccio a “frittelle” (Pancake Ice – Foto di Volker Siegel)

 Quanto ci sente “lontani”?

Nelle prime spedizioni a cui ho partecipato (alla fine degli anni 80’),  il senso di isolamento si avvertiva molto anche in relazione alla difficoltà dei mezzi di comunicazione e alla durata delle spedizioni. Queste prime spedizioni duravano infatti tre mesi e il solo modo di comunicare con l’Italia era via telefono dalla nave attraverso un ponte radio con cui si aveva una comunicazione incerta, di scarsa qualità, e piuttosto costosa (per cui le telefonate erano limitate al massimo).

Ora è tutto diverso dal punti di vista dei collegamenti e delle comunicazioni ed è raro sentirsi “lontani”. Si arriva in Antartide velocemente con aerei di tipo militare (C-130) che atterrano su piste ricavate sul ghiaccio. Le comunicazioni telefoniche sono molto efficienti e per nulla costose la maggior parte delle Basi (compresa quella Italiana) ha il collegamento internet che permettono di trasmettere dati in tempo reale, di consultare banche bibliografiche e di comunicare via   

L’emozione è sempre la stessa o dopo tante spedizioni la vivi come un’esperienza di routine?

La partecipazione ad una spedizione antartica è ogni volta una nuova avventura, sia dal punto di vista professionale che umano. L’ambiente naturale ha una forza di attrazione che si rinnova ogni volta e ogni volta procura emozioni forti. Se poi si ha fortuna di lavorare in diverse aree antartiche e in Stazioni scientifiche di altre nazioni le esperienze e le emozioni si amplificano, come anche le motivazioni professionali.  Esiste anche un vero e proprio “Mal d’Antartide”, che manifestano molti partecipanti dopo un’esperienza antartica.

 Come si vive nella base antartica?…..Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia esperienza è limitata naturalmente alla base italiana sulla costa del mare di Ross, che è una base attiva solo nell’estate antartica. Qui la vita è piuttosto frenetica perché in un breve periodo bisogna completare campionamenti e progetti. Ci sono delle regole generali che valgono per il personale scientifico e per il personale logistico.  12 ore di lavoro (dalle 8 alle 20 con pausa pranzo tra le 13 e le 14), tutti i giorni della settimana eccetto la domenica in cui di solito si ha il pomeriggio libero.

Quindi sveglia alle 7; bagno doccia rapida, colazione e inizio attività con uscite nelle zone di campionamento o attività nei laboratori per i ricercatori. La cena è a partire dalle 20. Dopo cena si ha sempre qualche lavoro da finire in laboratorio; da quando abbiamo i computer e la posta elettronica di solito le serate passano davanti al computer. Qualche volta si organizza una serata al “cinema” dopo aver scelto un film da vedere insieme alla televisione o una partita a carte.

 Quanto contano i rapporti umani ?

Come in tutte le piccole comunità isolate i rapporti umani sono importantissimi. In generale c’e  curiosità per il lavoro degli altri. A parte i rapporti con colleghi “scientifici” io personalmente apprezzo moltissimo la possibilità di collaborare con i tecnici della Base (meccanici, falegnami, idraulici etc) che in molte occasioni sono stati indispensabili per  riparare, mettere a punto o addirittura inventare attrezzature di campo e di laboratorio. Non sempre tutto è semplice e idilliaco naturalmente; è soprattutto quando c’è qualche contrattempo o qualche problema che si misura la capacità di interagire correttamente. Mi è capitato di incontrare anche persone che caratterialmente non sono proprio adatte ad interagire in modo adeguato, sono di solito persone abituate ad anteporre le loro esigenze a quelle di tutti gli altri e che dopo la prima esperienza non ritornano più.

 Come si vivono i rapporti tra i due sessi?

Penso che i punti di vista siano diversi e soprattutto siano diverse le esperienze tra basi permanenti (dove si convive per 12,15 mesi) e basi stagionale. Per quanto riguarda la base italiana mi sembra abbastanza bene, soprattutto negli ultimi anni, da quando cioè le “ragazze” non sono delle eccezioni ma fanno parte delle spedizioni in numero relativamente elevato.

Com’è il rapporto tra le basi delle nazioni che stazionano in Antartide?

Esiste una forte collaborazione in primo luogo di tipo logistico. Le Basi diventano da questo punto di vista dei porti di mare con gente in transito che arriva e che parte per altre destinazioni in Antartide. La Base italiana coordina le sue attività di movimentazione dei partecipanti e delle attrezzature con la Base statunitense di McMurdo e con la Base Italo-Francese di Concordia. Inoltre esiste anche un rapporto di collaborazione a livello scientifico che prevede  scambio di ricercatori che soggiornano nelle diverse Basi.   

Arrivo dei ricercatori con un C-130 nella Base Americana (Foto di Marino Vacchi).

Arrivo dei ricercatori con un C-130 nella Base Americana (Foto di Marino Vacchi).

 Cosa si mangia?

Nella nostra Base si mangia all’Italiana e molto bene. Nella prima parte della spedizione di solito si hanno a disposizione verdura e frutta fresca. In seguito ci si deve accontentare di verdure surgelate e come frutta c’è soltanto quella in scatola. I cuochi sono tra le persone più importanti della base e a volte dimostrano anche molta fantasia. Ricordo un anno (eravamo a corto di viveri perché la nave aveva avuto un ritardo) che i cuochi cercavano ogni sera di inventarsi qualcosa di fantasioso, e riempivano sempre la ciotola del formaggio con pane grattugiato  per  condire la pasta. Al sabato sera c’è la tradizione della pizza e ogni giorno c’è il pane fresco.

 Quando tornerai?…Per fare cosa?

 Ancora non lo so. Ho appena presentato una nuova proposta di ricerca al Programma Nazionale di Ricerche in Antartide. Se la proposta sarà stata convincente e sarà accettata andrò a fine anno alla Base Italiana e il prossimo anno parteciperò ad una campagna oceanografica nel Mare di Ross per collaborare ad uno studio sulle catene alimentari e sulla dinamica degli ecosistemi locali Mi occuperò in particolare dell’ecologia dell’Antarctic silverfish.

 Puoi dare una tua definizione del continente Antartico?

Un ambiente unico, in cui la vita ha seguito percorsi evolutivi straordinari. Un laboratorio naturale. Un patrimonio dell’Umanità.

Ringraziamenti speciali: l’appuntamento con la serie di articoli “Voci dall’Antartide” è stato realizzato per gentile concessione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide che ringrazio, nella speranza che conceda questo privilegio anche per la prossima spedizione a cui Marino Vacchi parteciperà.