La tonnara di Camogli: tradizione e sostenibilità

Tra le tecniche di pesca che l’uomo ha ideato alcune appartengono ad una storia antica fatta di grandi migrazioni di pesci pelagici, di reti fisse create per catturarli e di uomini di mare che lavorano attorno ad esse: la pesca della tonnara.

Le tonnare nascono dall’osservazione del comportamento migratorio del tonno rosso (Thunnus thynnus), un vorace superpredatore (il cui peso può arrivare ai 700 Kg) che si nutre quasi esclusivamente di pesce azzurro e che in primavera, spinto da un irrefrenabile istinto genetico, inizia il suo viaggio dalle fredde acque del Nord Atlantico, attraverso lo stretto di Gibilterra, per riprodursi nelle più calde e meno profonde acque del Mediterraneo. La pesca con la tonnara sfrutta il periodico spostamento dei tonni creando degli sbarramenti, dalla costa verso il mare, in grado di deviare i banchi di pesce verso un labirinto di reti che li intrappolerà nella sua parte finale: la camera della morte.

La carne di questo pesce è stata apprezzata fin dall’antichità più remota, ne parlano i Greci prima e poi i Romani, che con le sue interiora preparavano un condimento molto apprezzato all’epoca, il Garum. Il tonno è, nella tradizione marinara, un po’ come il maiale per quella contadina: di questo pesce non si butta via niente, le uova vengono lavorate per ottenere la “bottarga”, dalla schiena si ricava il “mosciame”, il resto viene inscatolato o salato, a seconda della parte del corpo, e persino la testa viene utilizzata ricavandone olio e concime.

La cattura del tonno attraverso l’utilizzo di questa particolare tecnica è una tradizione millenaria, furono probabilmente prima i Fenici e poi i Greci a calare per primi nel bacino del Mediterraneo questa tipologia di rete. Successivamente, attorno all’anno 1000, gli Arabi introdussero le prime tonnare in Sicilia e gli Spagnoli, che avevano imparato questo sistema di pesca durante la dominazione Araba, iniziarono a calare le tonnare lungo tutta la costa occidentale sarda, dopo averne preso possesso alla fine del 1400. La tecnica di pesca del tonno si sviluppò per molti secoli, nel 1800 si contavano ancora numerose tonnare in tutta Italia, ma oggi, all’alba del terzo millennio, ne sono rimaste solo cinque: due in Sicilia (Bonagia e Favignana), due in Sardegna (Carloforte e Portoscuso) e una in Liguria a Camogli.

I pescatori della tonnara di Camogli durante la levata della rete (Foto M. Faimali)

I pescatori della tonnara di Camogli durante la fase di  levata della rete (Foto M. Faimali).

Le prime notizie ufficiali della tonnara di Camogli si hanno nel 1603, ma probabilmente la sua storia è ancora più antica ed è stata in passato una fonte di benessere per tutta la cittadinanza ed i proventi della pesca servivano anche per cofinanziare importanti opere pubbliche e religiose (prolungamento del porto e completamento del Santuario del Boschetto) del paese. Dal 1982 la tonnara è stata affidata alla Cooperativa Pescatori di Camogli che ancora oggi la gestisce.

Come in passato, l’attività della tonnara a Camogli è ancora evidente e presente nella quotidianità del paese. Molti uomini e donne di Camogli hanno lavorato e lavorano, anche nei mesi invernali, per permettere la posa della tonnara in mare nel mese di aprile. Esistono differenze tra le tonnare siciliane e sarde e quella ligure. Quelle attive nelle due maggiori isole del nostro paese sono di grandi dimensioni e con molte stanze in cui il tonno sosta, prima che vengano aperte le varie porte che avviano il pesce verso la camera della morte, mentre quella di Camogli, per questo motivo chiamata anche “tonnarella”, è molto più piccola con solo due stanze dove vengono convogliati i pesci. Le prime possono essere definite “tonnare” vere e proprie, dedicate esclusivamente alla cattura del tonno (pesca che comincia a Maggio e dura circa quarantacinque giorni) che termina solitamente con la “mattanza”, parola di origine spagnola (“matar” significa uccidere), quando le reti della “camera della morte” vengono periodicamente sollevate, in base al quantitativo di pesce presente, ed i tonni, arpionati uno ad uno, vengono issati a forza sulle barche attorno ad essa.

A Camogli invece, dove non si pratica la mattanza, la “tonnarella” rimane in mare da Aprile a Settembre, e cattura qualunque tipo di pesce pelagico di passaggio, palamite, ricciole, leccie, tombarelli e più raramente tonni. Nelle tonnare di “monta e leva”, come quella di Camogli, si effettuano tre “levate” al giorno, con orari che cambiano secondo la stagione, le condizioni meteo-marine e la potenziale resa di pesca, generalmente la prima è sempre al sorgere del sole, la seconda a metà mattinata e infine la terza, nel tardo pomeriggio. Il pesce viene issato sulla barca dai pescatori che tirano su la rete a forza di braccia dalla barca mobile, avvicinandosi lentamente alla barca fissa, sulla quale viene caricato il pescato.

Anticamente le cime che costituivano le reti della tonnara venivano intrecciate utilizzando la lisca (Ampelodesmos tenax), una pianta con foglie lunghe e sottili che cresce spontanea sul promontorio di Portofino che consentiva, dopo una lunga e specifica lavorazione a mano, la produzione di cordami molto resistenti. La produzione avveniva a S. Fruttuoso di Camogli, piccolo borgo raggiungibile solo in barca o a piedi attraverso un ripido sentiero che parte dal Monte di Portofino, fornendo corde e reti per tutte le tonnare della Liguria. A partire dagli anni 60, la raccolta della “lisca” è stata vietata e i pescatori si sono organizzati sostituendola con il filetto di cocco (Ajengo superiore) importato appositamente ogni anno dall’India.

Le reti della tonnara sul molo di Camogli prima della loro posa in mare (Foto di M. Faimali)

Le reti della tonnara sul molo di Camogli prima della loro posa in mare (Foto di M. Faimali)

Anche oggi la rete e le corde vengono intrecciate, a parte l’ultima parte della “camera della morte” che è di nylon, usando questo materiale naturale lavorato secondo canoni ed un rituale che appartengono al passato. La rete così costruita non necessita di particolare manutenzione durante la stagione di pesca e consente il naturale sviluppo su di esso di una comunità di organismi bentonici (biofouling) che rende la rete meno visibile attirando il pesce.

La tonnara di Camogli viene calata, a circa 400 metri da Punta Chiappa, in direzione Camogli, nello stesso punto da tantissimi anni. La rete di sbarramento lunga 340 metri, detta “pedale”, viene fissata a terra ad uno scoglio e posizionata in mare, perpendicolarmente alla linea di costa, in modo da chiudere il passaggio ai pesci e guidarli verso una sorta di grosso recinto a forma parallelepipedo lungo circa 210 metri (parallelo alla linea di costa) costituito da una prima camera grande o “di raccolta” e da una seconda, chiamata “lea” o “camera della morte”, che ha una prima parte in cocco e finisce in nylon con maglie sempre più strette. La rete viene ormeggiata su un fondale profondo dai 10 ai 45 metri. Le operazioni di messa in opera vengono svolte in Aprile dai pescatori della cooperativa che legano i vari pezzi della rete direttamente a bordo dei gozzi da lavoro, facendo poi scivolare l’intera struttura in acqua seguendo un percorso prestabilito. Alla rete sono stati fissati ancorotti e pesi per poterla mantenere adagiata sul fondo e dei galleggianti (natelli), un tempo di sughero ed ora di plastica bianca, che mantengono le reti perimetrali perfettamente e costantemente verticali. Alla fine della posa, la rete vista dall’alto  forma una figura tracciata dai bianchi natelli, che ricorda una grande “T” galleggiante in superficie, il marchio inconfondibile della presenza della tonnara.

La "poltrona" la barca più grande dedicata a San Prospero tra quelle utilizzate dai pescatori della tonnara di Camogli (Foto M. Faimali)

Una suggestiva immagine della “poltrona” la barca più grande tra quelle utilizzate dai pescatori della tonnara di Camogli (Foto M. Faimali)

La pesca è organizzata utilizzando tre barche, una, la più grande, dedicata a San Prospero, detta “poltrona“, rimane sempre ancorata alla rete; la seconda, detta “asino“, va avanti e indietro dal porto di Camogli tre volte al giorno, portandosi a rimorchio la barca più piccola senza motore, chiamata “vedetta“, perché è la barca usata dal capoguardia per controllare, con lo specchio, se ci sono pesci nella camera della morte e se vale la pena di effettuare la faticosissima “levata“. Al comando del capoguardia, il “Rais” nella tradizione siciliana e sarda, la rete della “camera della morte” viene lentamente sollevata, con la sola forza delle braccia, dai sei pescatori di turno che stanno sulla poltrona, i “pescou da tonnaea” (pescatore della tonnara), il pesce viene prelevato con dei salai e caricato sull’asino che, ancora una volta, torna a Camogli con la ciurma ed il pescato.

La “levata” è un rituale silenzioso, sono poche le parole che si scambiano i pescatori mentre tirano su faticosamente la rete a braccia, tutto è già chiaro, definito e interpretabile solo con i pochi gesti che la tradizione e l’esperienza ha loro insegnato.

Attualmente le catture dei grandi tonni rossi è veramente rara e nel sacco si raccolgono palamite, bonitti e soprattutto nel periodo di passo le ricciole, le leccie, il pesce spada e i grandi pesci luna divenuti frequentatori abituali del mare di Portofino. La possibilità di poter selezionare e liberare le prede,prima della loro raccolta, specialmente quelle protette, è la peculiarità che rende la tonnara di Camogli unica e assolutamente sostenibile. Alla fine della stagione inoltre, le reti della tonnara vengono tagliate ed abbandonate in mare dove, in pochi mesi, le loro fibre naturali verranno completamente degradate dai microrganismi marini rendendo l’operazione completamente ecocompatibile.

Da aprile a settembre, ogni giorno, senza pause, perfettamente integrata con le attività del paese, questa tradizionale tecnica dai sapori antichi si perpetua, offrendo, ai distratti turisti, la possibilità di vedere lo sbarco del pescato sul molo di Camogli.

Da qualche anno esiste anche la possibilità di vivere in prima persona le emozioni di questa tradizionale pesca selettiva attraverso due distinte modalità. La prima, alla portata di tutti, è una visita mediante imbarcazione organizzata dall’associazione culturale Ziguele (http://www.ziguele.it/) il cui obiettivo principale è la promozione e valorizzazione delle attività tradizionali legate al mare e in particolare alla pesca sostenibile.

Alcuni turisti durante l'escursione organizzata dall'associazione Ziguele (Foto di V. Cappanera)

Alcuni turisti durante l’escursione organizzata dall’associazione Ziguele (Foto di V. Cappanera).

La seconda è un’esperienza dedicata a tutti i subacquei che, grazie al B&B Diving Center di Camogli (http://www.bbdiving.it/) l’unico autorizzato per questa tipologia di immersione, possono immergersi direttamente nella “camera della morte” durante la fase finale della levata ed entrare in contatto diretto con i grandi pesci pelagicidifficilmente visibili durante le normali immersioni.

Una fortunata immersione in tonnara con decine di grandi pesci luna (Foto di A. Penco)

Una fortunata immersione in tonnara con decine di grandi pesci luna  liberati come specie protetta alla fine della levata (Foto di A. Penco).

Per un approfondimento sulla tonnarella di Camogli consiglio i diversi articoli presenti nella sezione “Storie di Mare” del sito www.mareblucamogli.com a cura di Annamaria “Lilla” Mariotti.

La tonnara di Camogli deve essere uno stimolo per sottolineare come la piccola pesca a livello locale, a chilometro zero, eseguita con tecniche sostenibili sia da conoscere, sostenere e valorizzare per contrastare il devastante impatto della pesca industriale.

L’insostenibilità della pesca industriale: non sappiamo più che pesci pigliare

Ogni anno nel mondo, mediante diverse tecniche di pesca, si prelevano oltre 90 milioni di tonnellate di cibo dal mare e il nostro insaziabile appetito potrebbe presto portare al totale collasso di una parte dell’ecosistema marino (quella edibile), sopratutto per il fatto che l’uomo, spesso inconsapevolmente, dei prodotti del mare privilegia  i livelli superiori della catena trofica marina: i superpredatori.

La catena trofica in mare (Illustrazione di Franco Gambale)

La catena trofica in mare (Illustrazione di Franco Gambale)

Considerare, però, l’impatto delle attività di pesca esclusivamente in termini di tonnellaggio di pescato potrebbe produrre un’immagine distorta del reale danno ambientale. Dobbiamo infatti considerare che i diversi chilogrammi, che costituiscono i milioni di tonnellate del pescato mondiale, non sono tutti uguali e il costo ecologico del loro prelievo (impronta ecologica) è diverso in base alla posizione nella catena trofica degli organismi che li producono. L’impronta ecologica di un chilo di tonno, ad esempio, è circa 100 volte superiore a quella di un chilo di acciughe.

Il tonno è un superpredatore e per sopravvivere, un esemplare di grandi dimensioni deve ingurgitare l’equivalente del suo peso corporeo ogni 10 giorni. In generale i superpredatori, o predatori dominanti, si collocano al vertice della catena alimentare consumando enormi quantità di pesce, compresi i predatori di livello intermedio come gli sgombri, che a loro volta si nutrono di pesci come le acciughe, le quali predano microscopici organismi (zooplancton) che si nutrono, filtrandole, delle microscopiche alghe marine che costituiscono le praterie del mare (fitoplancton)…….. la vera e propria base di tutta la catena trofica marina (la produzione primaria).

Il trasferimento di energia e materia lungo la catena trofica marina (Illustrazione di Franco Gambale)

Il trasferimento di energia e materia lungo la catena trofica marina (Illustrazione di Franco Gambale)

Il risultato è che un superpredatore da 500 chilogrammi può aver bisogno di mangiare ben 20 mila pesci più piccoli nell’arco di un anno. Tutti gli ecosistemi marini del mondo hanno catene alimentari simili a questa, ciascuna con il suo predatore dominante che dipende da vari livelli di una catena alimentare.

I ricercatori, misurando la quantità di “produzione primaria” degli oceani (l’insieme dei microscopici organismi alla base della rete alimentare marina) necessaria per produrre un chilogrammo di un determinato tipo di pesce, hanno scoperto che, per esempio, un chilo di superpredatore può richiedere anche più di 1.000 chili di produzione primaria come costo ecologico (impronta ecologica). Appare quindi chiaro come il “cosa” sia decisamente più importante del “quanto” se si considera l’impronta ecologica della pesca.

Ovviamente la nostra specie è il “superpredatore” del pianeta e per catturare le sue prede mette in campo oltre 4,3 milioni di pescherecci che tutti giorni solcano gli oceani alla forsennata ricerca dei quantitativi di pesce che il mercato mondiale della pesca richiede. Le nazioni più ricche tendono a comprare molto pesce, spesso superpredatori come il tonno.  La classifica dei paesi che hanno l’impronta ecologica peggiore, considerando il consumo di produzione primaria, vede al terzo posto gli Stati Uniti che, con una popolazione numerosa la tendenza a consumare pesci al vertice delle catene alimentari, consumano circa  350 milioni di tonnellate di produzione primaria. Il Giappone, che pesca meno di cinque milioni di tonnellate di pesce ogni anno ma ne consuma nove milioni, che sono equivalenti, in termini di produzione primaria, a circa 580 milioni di tonnellate, si piazza con autorevolezza al secondo posto. Ma con circa 700 milioni di tonnellate di produzione primaria è la Cina la nazione che detiene il primato della peggiore impronta ecologica della pesca al mondo.

L’Europa, consapevole degli ultimi dati sullo stato di salute degli stock ittici europei che rivelano come l’88% degli stock ittici comunitari sia sottoposto a una pressione di pesca che supera il livello di Rendimento Massimo Sostenibile (MSY) e come il 40 % sia al di sotto dei limiti biologici di sicurezza, all’inizio dell’anno ha approvato un’ambiziosa riforma (Politica Comune della Pesca) che entrerà in vigore nel 2014 per fermare la pesca intensiva considerata il più grande fallimento dell’attuale PCP, che risale al 2002.

Si è arrivati a questa situazione globale in quanto il volume della pesca mondiale è quadruplicato negli ultimi sessant’anni. Negli anni Cinquanta pescavamo in zone molto più limitate ma l’incremento esponenziale della richiesta di superpredatori ha fatto sì che le nazioni ricche superassero le capacità di produzione primaria delle loro aree economiche esclusive con il risultato che, per mantenere l’offerta costante o incrementarla, la pesca si è estesa anche alle acque extraterritoriali, vaste distese marine che appartengono a tutti e quindi tecnicamente a nessuno.

Oggi il pescato delle acque extraterritoriali è quasi decuplicato rispetto al 1950, passando da 1,6 milioni di tonnellate a circa 13 milioni. E gran parte di questo pescato consiste in superpredatori ai vertici della catena alimentare, di grande valore economico e con un’enorme impronta ecologica.

La situazione ora rischia il collasso, la crescente domanda di prodotti ittici ha spinto flottiglie di pescherecci in ogni area vergine della Terra, col risultato che non ne esiste più alcuna nuova da sfruttare. In una recente relazione la FAO ha stabilito che i mari non hanno quasi più pesce a sufficienza per sostenere l’assalto e se anche le imbarcazioni, gli ami e le reti venissero immediatamente dimezzati, pescheremmo comunque troppo.

Qualcuno intanto, spesso senza una vera consapevolezza ecologica, suggerisce come soluzione al sovrasfruttamento delle risorse ittiche l’aumento esponenziale dell’acquacoltura. Idealmente la possibilità di poter allevare la fonte delle proteine di cui abbiamo bisogno dovrebbe essere ecologicamente più accettabile del diretto prelievo in natura ma per quanto riguarda il cibo di origine marina, per ora, si tratta di una vera e propria illusione.

Sulla terraferma noi alleviamo e ci nutriamo di erbivori ma in mare noi alleviamo quasi esclusivamente carnivori (spesso anche superpredatori) e questo approccio ha un grosso difetto: quasi tutti i pesci allevati consumano infatti farine e oli ricavati da pesci più piccoli, spesso altri predatori carnivori. Questo, se pensiamo a quanta energia e materia serve per ogni passaggio tra i livelli di una catena trofica, diventa ecologicamente inaccettabile: è come se sulla terraferma ci nutrissimo di leoni cacciando le gazzelle come cibo per allevarli.

Forse cominciare a quantificare il valore ecologico del pesce selvatico impiegato come mangime negli allevamenti ittici potrebbe mostrare il vero impatto dell’acquacoltura e suggerire nuovi approcci anche in questo settore che dovrebbe puntare, in futuro, soprattutto su allevamenti intensivi di specie onnivore o erbivore.

Le attuali pratiche di pesca e allevamento non sono più sostenibili e le diverse lobby che sostengono il mantenimento dello stato attuale delle cose non prendono in considerazione le implicazioni ecologiche ed economiche.

Abituarsi a considerare e calcolare l’impronta ecologica nello sfruttamento delle risorse marine potrebbe rendere possibile la ricostruzione del patrimonio degli oceani cominciando a promuovere i cambiamenti a cui l’industria ittica ha sempre tentato di sbarrare la strada: tagliare il 50 per cento delle flotte di pescherecci, istituire vaste aree di divieto di pesca e limitare l’uso di pesce selvatico come alimento negli allevamenti.

Solo muovendoci in questa direzione, in un futuro non troppo lontano la nostra specie potrebbe avere la possibilità di condividere equamente un oceano davvero ricco e resuscitato, piuttosto che contendersi avidamente le briciole dopo il suo collasso ecologico.

 (Tutte le illustrazioni a fumetti utilizzate nei post di questo blog sono tratte dal libro del CNR “micro&Macro Mare: dalle alghe alle balene“)

Malato come un pesce!

Il modo di dire “Sano come un pesce” deve essere sfatato.

Il detto popolare ha radici lontane, in un tempo in cui i pesci erano visti come esseri viventi che “non si ammalano mai”… in verità anche i pesci si ammalano, ma, per ovvie ragioni, rimane sempre molto difficile osservare un pesce “gravemente malato” nel suo ambiente naturale; gli individui deboli vengono predati molto più facilmente e quindi scompaiono rapidamente. I pesci in definitiva si ammalano nella stessa misura degli altri esseri viventi del regno animale.

Illustrazione di Franco Gambale

La diffusione di agenti patogeni rappresenta una seria minaccia per i pesci provocando improvvisi eventi di mortalità di massa che possono portare alla scomparsa di specie considerate rare e alla drastica riduzione di specie un tempo abbondanti.

L’anemia dei salmoni, per esempio, descritta per la prima volta in Norvegia nel 1984, si è diffusa in modo pandemico provocando l’inizio della profonda crisi che ha portato nel 2008 al collasso della produzione dell’allora maggiore esportatore di salmoni: il Cile. Per colpa di un virus (Orthomyxovirusla produzione cilena è crollata del 75% in due anni con una perdita di almeno 5mila posti di lavoro. L’anemia infettiva dei salmoni (Infectious Salmon Anemia, ISA) è una malattia derivante probabilmente dall’adattamento ad un nuovo ospite di un virus già noto che, fortunatamente, ha colpito solamente i salmoni allevati in acquacoltura. Il virus, legato a quelli della comune influenza, non si trasmette all’uomo in caso di ingestione delle carni infette (né crude né cotte) e neppure qualora si maneggi del pesce malato.

Recentemente un’altra patologia virale, nota con il nome di Encefalo-Retinopatia Virale (ERV o VER), ha generato, come l’anemia, pesanti perdite economiche negli impianti di allevamento di tutto il mondo; quest’ultima ha tuttavia oltrepassato il confine degli impianti di allevamento causando una moria massiva di cernie selvatiche in Giappone e nell’ottobre dello scorso anno anche presso le coste del basso Salento (Puglia).

Cernia bruna infettata dalla VER. Esemplare morto di cernia bruna sul fondo del mare che mostra evidenti erosioni della pinna probabilmente associate ai traumi causati dalla perdita di controllo del comportamento natatorio causato dalla VER (vedi immagine originale).

Esiste quindi la possibilità che il virus che causa la malattia (Betanodavirus) si diffonda dagli impianti di acquacoltura all’ambiente naturale circostante.

Il contagio può essere favorito da una serie di fattori tra cui l’abitudine di molti pesci selvatici di avvicinarsi alle gabbie di allevamento per trovare riparo e soprattutto per nutrirsi, sia del mangime destinato ai pesci allevati sia talvolta degli stessi pesci allevati. In altri casi è il pesce allevato che fuoriuscendo dalle gabbie di allevamento è potenzialmente in grado di diffondere l’infezione nell’ambiente naturale. Inoltre, anche il trasporto a livello globale di avannotti delle specie di allevamento può contribuire a diffondere il virus in aree del mondo in cui questo non è ancora presente.

Un primo studio dedicato alla verifica della presenza di questo virus in specie selvatiche, pubblicato nel gennaio 2013 sulla rivista “BMC Veterinary Research”, è stato effettuato da ricercatori (Niccolò Vendramin, Anna Toffan, Valentina Panzarin, Elisabetta Cappellozza, Calogero Terregino, Giovanni Cattoli) dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie di Padova, centro di referenza in Italia per le malattie dei pesci,  in collaborazione con un veterinario ittiopatologo (Pierpaolo Patarnello) e alcuni ricercatori dell’Università del Salento (Antonio Terlizzi e Perla Tedesco).

Lo studio, stimolato anche da testimonianze da parte di pescatori di morie di massa e comportamenti natatori anomali di alcune cernie filmate in immersione da alcuni subacquei salentini, è stato condotto presso le Aree Marine Protette di Porto Cesareo (Mar Jonio) e di Torre Guaceto (Mar Adriatico) campionando diversi esemplari appartenenti a diverse specie di pesci, focalizzandosi oltre che sulle cernie anche su quelle specie considerate maggiormente sensibili al virus, tra cui la spigola (Dicentrarchus labrax). I campioni di tessuto encefalico e gonadico, i principali bersagli del virus, sono stati analizzati con innovative indagini biomolecolari.

Clicca sulla foto per visualizzare il video

I risultati  ottenuti hanno messo in luce una percentuale di positività al virus nei pesci indagati pari al 30%, con un’elevata prevalenza soprattutto nella spigola confermando la stretta relazione tra il virus presente nei pesci degli allevamenti e le specie selvatiche indagate in natura.

Gli effetti delle morie negli impianti sono ovviamente devastanti in quanto determinano la perdita del pesce allevato ma anche in popolazioni selvatiche tali effetti sono altrettanto preoccupanti da un punto di vista ecologico perché un evento di mortalità di massa a carico di grossi predatori si può ripercuotere lungo tutta la catena trofica, andando a influenzare pesantemente anche le specie che occupano livelli trofici inferiori. Il rischio è quello di un depauperamento di specie ittiche pregiate con pesanti ricadute a livello economico ed ambientale.

Per evitare tutto questo è necessario implementare programmi di monitoraggio ambientale al fine di comprendere meglio i meccanismi di diffusione epidemiologica di questa ed altre patologie infettive ed essere quindi in grado di prevenire o comunque affrontare nel miglior modo possibile eventuali focolai circoscritti prima che le patologie sfocino in pericolose pandemie.

Un mare di scienza al Big Blu

Un mare di scienza nello stand didattico del progetto RITMARE durante la 7° edizione di Big Blu, il Salone della Nautica e del Mare di Roma, presso l’isola culturale Pelagos Sea Heritage Exhibition, dove animatori scientifici dell’Istituto di Scienze Marine del CNR (Giuliano Greco, Caterina Bergami e Filomena Loreto) hanno proposto il laboratorio didattico “mico&MACRO Mare” direttamente ispirato al volume di divulgazione scientifica “micro&MACRO Mare: dalle alghe alle balene“, Erga edizioni, realizzato dal CNR e selezionato tra i migliori libri di divulgazione scientifica dal Comitato Scientifico per la IV edizione del “Pianeta Galileo – Primo incontro con la scienza” del 2012.

Lo stand RITMARE presso il Big Blu di Roma presso l’isola culturale Pelagos Sea Heritage Exhibition

Durante la manifestazione Romana i ricercatori di RITMARE hanno offerto attività divulgative innovative grazie ad una serie di microscopi collegati con un megaschermo, accompagnando i visitatori e gli studenti delle numerose classi coinvolte in un viaggio consapevole alla scoperta di quanto nel mondo sommerso è meno appariscente, quasi invisibile, ma fondamentale per la sopravvivenza del pianeta.

Un percorso didattico in grado di spiegare, attraverso l’osservazione diretta al microscopio e una semplice presentazione multimediale, ricca di informazioni, immagini subacquee e illustrazioni, come la nostra sopravvivenza (come specie) e il funzionamento del nostro pianeta (come macro-ecosistema) dipende in gran parte dall’attività e dalle interazioni di microscopici organismi marini (micro-ecosistemi) fondamentali per il funzionamento del “motore biologico marino” in grado di sostenere l’intero ecosistema Terra.

Una classe durante una sessione del laboratorio didattico “micro&MACRO Mare” presso lo stand RITMARE

L’iniziativa è un primo concreto esempio di divulgazione messo in atto da uno dei Progetti Bandiera del Programma Nazionale della Ricerca finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e coordinato dal CNR. Il progetto RITMARE (www.ritmare.it) è un innovativo esempio di ricerca globale e trasversale, in grado di riunire in uno sforzo integrato, tutta la comunità scientifica e una significativa rappresentanza degli operatori privati del settore marittimo-marino italiano nel tentativo di riaffermare con forza ed efficacia la vocazione marinara dell’Italia restituendo profondità e futuro alle politiche di sviluppo in tema di trasporti, risorse e ambiente marino del paese in piena sintonia con le indicazioni del Libro Blu della Commissione Europea (Una politica marittima integrata per l’Unione Europea – COM2007/575, del 10 ottobre 2007).

RITMARE è un programma nazionale di ricerca scientifica e tecnologica per il mare che vuole coniugare le risorse ambientali del mare con l’uso connesso alle attività produttive ed allo sfruttamento energetico delle sue risorse, sviluppando tecnologia ed innovazione, ma promuovendo, al tempo stesso, la sua conoscenza ed il rispetto del suo equilibrio. In sintesi, integrare le politiche marittime con quelle marine mettendo a sistema le eccellenze di ricerca pubblica e privata in un grande sforzo progettuale nazionale.

La buona riuscita di un progetto di tale portata passa anche attraverso la sua capacità di divulgare i risultati raggiunti, formare nuove generazioni di figure professionali, nonché di dotare il Paese di infrastrutture di ricerca efficienti e condivise.

Sintesi delle attività e dei contenuti del progetto RITMARE

Per questo motivo il sottoprogetto “Strutture di ricerca, formazione e comunicazione” di RITMARE ha previsto azioni specificatamente dedicate alla diffusione della cultura del mare rivolta sia al mondo della ricerca sia alle realtà produttive che gravitano attorno al mare, sia ai cittadini, con l’obiettivo, in quest’ultimo caso, di far aumentare la percezione dell’ambiente marino come una delle più importanti risorse comuni.

Le attività di comunicazione sono coordinate dal CINFAI che insieme ai principali Enti di Ricerca (CNR, ENEA, CoNISMa, OGS, INGV, SZN) promuoverà durante tutta la durata del progetto campagne di comunicazione interattive, web documentari, album fotografici, partecipazioni coordinate ad eventi pubblici, sfruttando anche le potenzialità dell’utilizzo integrato dei social network più diffusi.

Seguiamo e sosteniamo la buona divulgazione italiana del progetto RITMARE anche su Facebook. 

 

Energia dalle microalghe

Nello scenario mondiale delle innovazioni maggiormente promettenti per il settore delle fonti rinnovabili di energia, un ruolo potenzialmente di primo piano è quello che prevede l’utilizzo a fini energetici delle microalghe. Sono numerosi i gruppi di ricerca pubblici e privati impegnati a migliorare le tecniche di allevamento intensivo di questi microrganismi acquatici per la produzione di energia e/o biocombustibili. Le microlaghe, anche note come fitoplancton, sono organismi microscopici unicellulari che vivono singolarmente o in colonie (catene e/o aggregati), in acque dolci e salate.

Immagine al microscopio ottico di una coltura di laboratorio della microalga marina Tetraselmis suecica (Fonte ISMAR-CNR)

Le loro dimensioni generalmente sono nell’ordine del micrometro, da pochi micron (1 micron = 1 millesimo di mm) a qualche centinaio,  e la loro biodiversità è ancora assolutamente una risorsa poco studiata e sfruttata: solo 35.000 specie sono state fino ad ora descritte rispetto a quelle potenzialmente stimate che potrebbero essere tra le 200.000 e 800.000.

Le microalghe nel loro complesso, sono responsabili di circa il 30-50% della fotosintesi del nostro pianeta e della conseguente produzione di ossigeno ed assorbimento della anidride carbonica necessaria per poter crescere e sintetizzare nuova sostanza organica (biomassa).

Le microalghe costituiscono a tutti gli effetti quella frazione di microscopici organismi che contribuiscono, con il loro silenzioso e invisibile lavoro biochimico giornaliero, al funzionamento del poderoso meccanismo che, controbilanciando l’immissione di diossido di carbonio di origine antropica, mantiene il clima della Terra a livelli ancora accettabili.

Queste “minuscole piante vaganti” del pianeta acqua possono essere utilizzate anche per produrre energia rinnovabile. Le microalghe rappresentano il cuore del processo naturale di conversione della CO2 in energia.

Possiedono infatti alcune caratteristiche peculiari che contribuiscono a renderle particolarmente interessanti come la possibilità di essere coltivate in qualsiasi contesto (acque dolci, acque salate e acque ad elevato contenuto organico) ed una ottima efficienza di conversione dell’energia solare in biomassa (algale) che rende la loro produttività potenziale di gran lunga maggiore di quella ottenibile con le colture agricole tradizionali. Si stima che la loro produttività a parità di superficie utilizzata potrebbe essere 30 volte superiore a quella delle specie terrestri convenzionali.

Sfruttando la naturale capacità riproduttiva di questi micro-organismi e le innovative tecnologie non inquinanti, le alghe vengono trasformate in biomassa dalle proprietà altamente energetiche.

La biomassa può essere utilizzata per differenti applicazioni: produrre biocarburante, generare energia elettrica e produrre sostanze (bioprodotti) di grande interesse in diversi settori industriali quali la produzione di integratori alimentari, farmaci, cosmetici e mangimi.

La produzione di biodiesel tramite le alghe sta riscontrando un notevole interesse. Exxon Mobil e la Synthetic Genomics di Craig Venter hanno investito insieme 600 milioni di dollari (460 milioni di euro) in ricerche sul tema. Anche la Nasa sta compiendo ricerche nelle alghe per produrre biocarburanti per l’aviazione, e Bill Gates ha finanziato con 100 milioni di dollari la Sapphire Energy per un impianto pilota nel deserto del New Mexico.

In Italia l’Istituto di chimica biomolecolare del Cnr, insieme alla Ferrero (interessata alle applicazioni di tipo alimentare) e all’azienda napoletana Sepe hanno dato vita al progetto SIBAFEQ con un investimento da 8 milioni di euro. Un impianto di produzione di biofuel dalle alghe sta sorgendo anche a Pellestrina, isola vicino Venezia.

Tuttavia, nonostante la ricerca sulle microalghe sia in una fase avanzata, l’energia ricavabile da questi microorganismi è ancora venti volte più cara del petrolio. Come ottenere energia è ormai chiaro, il problema ancora irrisolto è come rendere il processo più economico e quindi competitivo.

Le alghe vengono fatte crescere in grandi vasche esposte alla luce, o in tubi trasparenti affiancati l’uno all’altro come fossero pannelli solari viventi. Il metabolismo di questi minuscoli organismi unicellulari parte da anidride carbonica, energia del sole e un mix di fertilizzanti per arrivare alla produzione di olii del tutto comparabili al petrolio.

Attualmente la resa è di 15-20 tonnellate di olio per ettaro, mentre il biofuel estratto dalle palme si aggira attorno alle 5-6 tonnellate e la colza – coltura adatta alle nostre latitudini – arriva solo alle 2,5. La sfida per il futuro sarà quella di arrivare a produrre con le alghe 100 tonnellate di olio per ettaro.

Le microalghe sembrano una soluzione potenzialmente perfetta per la produzione di energia alternativa rinnovabile anche se, come spesso accade, esiste chi evidenzia una realtà diversa: il biodiesel ricavato dalle alghe non è poi così “verde” come si pensava.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge, utilizzando un modello al computer per calcolare la quantità di anidride carbonica che si rilascia nell’atmosfera (impronta carbonica) durante le fasi di produzione, raffinazione e consumo di biodiesel prodotto da bioreattori ad alghe, ha evidenziato un’emissione di CO2 decisamente maggiore di quella generata dall’estrazione, raffinazione e combustione del diesel ricavato da combustibili fossili.

Nonostante il livello di conoscenza scientifica raggiunto e i potenziali vantaggi, l’idea di utilizzare la fotosintesi delle microalghe come soluzione energetica è quanto mai controversa e il dibattito sulla reale possibilità di sfruttare questa risorsa come alternativa ai combustibili fossili o ai bio-combustibili da piante terrestri resta più che mai aperto anche se novità applicative interessanti ne risvegliano di tanto in tanto un rinnovato interesse.

Una rappresentazione virtuale della casa a microalghe (http://www.biq-wilhelmsburg.de/)

Una notizia di questi giorni, infatti, prevede l’arrivo del primo edificio alimentato totalmente da un bioreattore a microalghe presente sulla facciata. La casa ad alghe (Biq-House), che dovrebbe essere completata il prossimo 31 marzo, è una palazzina di cinque piani: all’interno dei pannelli di vetro, che rivestono le pareti esterne, sono coltivate microalghe che, grazie al processo di fotosintesi, assorbono i raggi solari e l’anidride carbonica creando un sistema di ombreggiamento e che riesce a mantenere, in modo “naturale”, una temperatura più bassa in estate mentre il calore, prodotto dalla biomassa delle alghe, viene utilizzato per riscaldare l’edificio nel periodo invernale e come fonte di energia elettrica. Dalla biomassa algale prodotta viene infatti estratto il metano in un vicino impianto di biogas; contemporaneamente viene prodotto calore che viene immesso nuovamente nell’edificio. L’idea ed il progetto sembrano interessanti ed attendiamo notizie per capire se la realizzazione sarà realmente sostenibile nel lungo periodo dal punto di vista economico ed ecologico.

Rimane comunque il fatto che l’ipotesi “microalgale” come soluzione energetica è ancora viva e continua a sorprenderci.

Scientificast.it: la scienza da scaricare e ascoltare

Voglio dedicare questo post ad un gruppo di colleghi che, con grande passione e dedizione, si sono inoltrati in una avventura divulgativa innovativa e per il momento unica in Italia.

Lo stimolo è stato, come per tutti quelli che si dedicano alla divulgazione, l’irrefrenabile voglia di condividere e diffondere la propria passione per l’esplorazione scientifica, utilizzandola come potenziale strumento di crescita culturale globale.

Sono anche loro come me, degli spacciatori di questa strana “sostanza stupefacente”, distribuita gratuitamente con qualsiasi mezzo messo a disposizione dalle nuove tecnologie di comunicazione.

Loro hanno individuato a mio avviso un modo veramente innovativo di spacciare la “passione scientifica” attraverso l’utilizzo di un sistema (il podcasting) che permette di accedere dalla rete a una serie di documenti elettronici, detti podcast, con i quali poter ascoltare quando vogliamo (in differita) le puntate di una trasmissione radiofonica che invece che venire trasmessa dai ripetitori, viene man mano, puntata dopo puntata, caricata in internet.

Scientificast.it è il primo podcast dedicato alla divulgazione scientifica in Italia e si propone di portare alle orecchie di un pubblico appassionato informazioni, news e concetti di carattere scientifico con un taglio divulgativo e divertente è liberamente scaricabili come podcast e fruibili da chiunque in qualsiasi momento.

Sin dai primi mesi di attività, nell’autunno 2011, Scientificast ha riscosso un larghissimo successo, collocandosi rapidamente tra i podcast più seguiti a livello nazionale. Questo risultato conferma che se proposta con intelligenza la scienza non è affatto noiosa. La ricerca è un’avventura alla scoperta dei misteri che ci circondano, per comprendere ciò che è ancora non ci appartiene. Scientificast.it è nato per comunicare al pubblico l’importanza e il fascino di questa continua avventura nei misteri dell’universo in cui viviamo.

La squadra che gestisce questa avventura è estremamente eterogenea e molti dei collaboratori si occupano in prima persona di ricerca scientifica (vedi la rassegna degli spekaers).

Nelle sue effervescenti puntate si passano in rassegna, anche grazie a numerose interviste ad ospiti d’eccezione, le più interessanti e curiose novità pubblicate sulle riviste scientifiche internazionali, alternandole a momenti di approfondimento su temi legati a chimica, fisica, biologia, medicina, scienza dei materiali, matematica e l’astronomia.

Dato l’apprezzamento dimostrato dagli ascoltatori, da Marzo 2012 Scientificast.it è anche un’associazione senza scopo di lucro, alla quale si può aderire seguendo le istruzioni riportate in un recente post sul sito www.scientificast.it.

 

Aiutiamo e sosteniamo la buona divulgazione scientifica italiana.

L’isola che non c’è

 “Seconda stella a destra

questo è il cammino

e poi dritto, fino al mattino

poi la strada la trovi da te

porta all’isola che non c’è…..

 

L’isola dove vorrei portarvi è un isola tanto ostentata quanto invisibile. Da anni ci imbattiamo in articoli cartacei o elettronici che raccontano di questa famigerata “isola di plastica”, un isola fluttuante, chiamata Great Pacific Garbage Patch, costituita da un enorme ammasso di frammenti plastici che si è formato nella regione settentrionale dell’Oceano Pacifico per via di una specifica combinazione di venti e correnti marine. Nell’immaginario collettivo, anche in quello presente in rete, questa isola, anzi queste isole vengono descritte come dei veri e propri “continenti di plastica” che galleggiano in una serie di  vortici di spazzatura di dimensioni incredibili.

La classica rappresentazione dei grandi vortici di spazzatura nell’oceano pacifico (Great Pacific Garbage Patch from http://www.scientificamerican.com).

 

Charles Moore, un miliardario convertito alla causa ambientale e fondatore di “Algalita Marine Research Foundation” ha definito come “il sesto continente” un’area di 2500 chilometri di diametro, suddivisa in due “isole di rifiuti” che si concentrano nei pressi del Giappone e a ovest delle Hawaii, formando un vero e proprio continente delle dimensioni paragonabili all’intero territorio del Canada. Anche se gli articoli di Moore sono ospitati dalle più grandi riviste scientifiche, politiche e di attualità, e con alcuni dei suoi pezzi (relativi all’oceano di plastica) ha vinto il Pulitzer Prize nel 2007 se cerchiamo delle immagini reali di queste isole di plastica rimarremo profondamente sorpresi.

 

“Forse questo ti sembrerà strano

ma la ragione

ti ha un po’ preso la mano

ed ora sei quasi convinto che

non può esistere un’isola che non c’è”

 

Provate a digitare in rete qualsiasi parola chiave di riferimento, cercando anche per immagini, ma non ne troverete nessuna indiscutibilmente riconducibile a questo fenomeno che per la sua estensione dovrebbe essere facilmente visibile anche banalmente con Google map. Sono presenti centinaia di schemi, disegni, rappresentazioni grafiche dei diversi “Trash Vortex ma nessuna in grado di mostrare senza ombra di dubbio queste gigantesche isole di plastica.

Una delle fotografie più celebri associata a questa problematica è quella di un uomo che naviga in canoa in uno specchio d’acqua interamente ricoperto da rifiuti; ma in realtà è stata scattata nei pressi del porto di Manila, da tutt’altra parte del pianeta rispetto all’isola di plastica del Pacifico.

 Ma allora quale è la verità? Sono solo suggestioni dei media? Campagne di ecologisti isterici?

No. Decisamente no…….ma questo atteggiamento superficiale nell’utilizzo delle informazioni da parte dei media non ha fatto altro che alimentare interpretazioni sempre meno corrette della realtà della plastica nei nostri oceani, creando spesso vere e proprie leggende metropolitane.

 

“E a pensarci, che pazzia

è una favola, è solo fantasia

e chi è saggio, chi è maturo lo sa

non può esistere nella realtà!….”

 

In effetti dovremmo essere seri, maturi, razionali ed avere il coraggio di dire con forza che l’isola di plastica non esiste….è un isola che non c’è!!!…..almeno nel modo in cui ci viene spesso rappresentata dai media.

Quella che è stata definita “isola” non è altro che un vastissimo ammasso di milioni di frammenti microscopici grandi pochi millimetri che ricoprono circa 5000 km quadrati di oceano. Ci sono anche oggetti di medie dimensioni, come bottiglie e sacchetti, ma la maggior parte della plastica è quasi invisibile ad occhio nudo (frammenti minuscoli e microplastiche) ed ovviamente anche agli occhi elettronici dei satelliti. Per intenderci la loro densità in mare è paragonabile a quella di una manciata di mentine sparse su campo di calcio.

E’ vero, quindi, che esistono aree negli oceani altamente invase da rifiuti di plastica ma non aspettiamoci di vedere un enorme isola galleggiante composta da bottiglie, pneumatici e sacchetti che minacciosamente ruota verso le nostre coste perché rimarremmo profondamente delusi.

Ma il fatto che “l’isola di plastica” non è come l’abbiamo immaginata non significa che non esista e che dobbiamo sottovalutare il gravissimo problema dei rifiuti solidi in mare.

 

“E ti prendono in giro

se continui a cercarla

ma non darti per vinto perché

chi ci ha già rinunciato

e ti ride alle spalle

forse è ancora più pazzo di te…”

 

 Come evidenziato da un report tecnico pubblicato nel 2012 dal CBD (Convention on Biological Diversity), che ha esaminato lo stato attuale delle conoscenze degli effetti dei rifiuti marini (marine debris) fornendo una preliminare valutazione dell’impatto sugli ecosistemi e la biodiversità, i rifiuti di plastica sono stati identificati come uno dei rischi globali al pari dei cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità.

Da un analisi del report (scaricabile a questo link) emerge che l’impatto dei rifiuti marini è stato descritto su 663 specie diverse e che in almeno il 75% delle pubblicazioni analizzate le cause erano effetti diretti di rifiuti di plastica macroscopici che avevano causato, a rettili, uccelli e mammiferi marini, problemi di aggrovigliamento e soffocamento da ingestione. La tipologia di rifiuti marini che solitamente si ritrovano in mare e che possono avere hanno effetti sulla biodiversità marina sono:

 

– cime e reti da pesca (24%)

– altri residui di attrezzi da pesca (16%)

– imballaggi di plastica (17%)

– frammenti di plastica (20%)

– microplastiche (11%)

– carta (0,64%)

– vetro (0,39%),

– metallo (0,39%)

 

La plastica costituisce il 60-80% dei rifiuti in mare e in alcune aree del pianeta il dato arriva al 90-95%. Non sono quindi le “immaginarie” isole galleggianti a preoccupare ma in generale la enorme distribuzione in mare di detriti di plastica anche sottoforma di minuscoli frammenti, spesso in sospensione nei primi 20 centimetridalla superficie che in Mediterraneo ad esempio, come evidenziato da una recente spedizione di ricerca (Expedition MED), hanno un peso medio di 1,8 milligrammi ed una densità media di 115 mila frammenti per chilometro quadrato di mare.

 

Alcuni dei frammenti di materiale plastico ritrovato nei campioni di acqua di mare filtrata durante la campagna ExpeditionMED

Un altro aspetto che spesso viene distorto dai media è quello che riguarda la presunta letalità della plastica ed il suo impatto sulla biodiversità marina.

E’ assolutamente indiscutibile che molti animali sono a serio rischio di sopravvivenza per colpa dei rifiuti plastici (vedi galleria degli orrori); ma altri, tuttavia, sfruttano la plastica per prosperare come mai era successo nella loro storia recente.

Alcuni animali infatti sembrano non badare minimamente al problema, sfruttando i materiali plastici galleggianti come nuovi substrati adatti a deporre le uova o come sistema di trasporto a basso costo energetico per colonizzare nuovi ambienti (trasporto di specie aliene) aumentando la loro possibilità di successo come singola specie.

La realtà è che la plastica, solo per il fatto di essere tale, non sembra essere letale per la maggior parte degli animali e sono ancora pochi gli studi in grado di certificare gli effetti dannosi delle microplastiche (vedi un approfondimento sull’argomento). Non è del tutto corretto, quindi, affermare che la plastica stia distruggendo ogni forma di vita marina.

E’ corretto supporre, invece, che la “plastisfera” questo sesto continente artificiale estremamente esteso ed invisibile (l’isola che non c’è) stia alterando l’equilibrio degli ecosistemi ed avrà sicuramente un forte impatto sulla biodiversità marina. L’evoluzione del fenomeno deve essere ancora studiata nel dettaglio valutandone con criteri scientifici le reali e specifiche potenzialità di rischio ambientale senza generare inutili scenari eco-catastrofici che forniscono un immagine alterata della situazione dei nostri mari.

“E non è un’invenzione

e neanche un gioco di parole

se ci credi ti basta perché

poi la strada la trovi da te……

…..porta all’isola di plastica… che forse c’è.

 

(Le frasi sono liberamente estrapolate dal testo della canzone di Edoardo Bennato L’isola che non c’è – Sono solo canzonette, 1980)

 

 

Questo articolo e’ stato scritto per l’ottava edizione del Carnevale della Biodiversità, che per celebrare il “Darwin Day 2013″ (oggi è il 240mo compleanno di Charles Darwin) ha proposto come tema: ” L’isola che c’è.”

Per la rassegna completa di tutti i blog e post che partecipano al carnevale vai su  Leucophaea, di Marco Ferrari.

Voci dall’Antartide – Vol. 3

Da qualche giorno ero seriamente preoccupato per Marino Vacchi il nostro collegamento con la Base Italiana Antartica “Mario Zucchelli” a Baia Terra Nova in quanto da qualche giorno girava in rete la notizia di un incidente ad un aereo leggero di supporto alla ricerca in trasferimento dalla stazione americana di South Pole verso la nostra Base.

Finalmente ieri sono riuscito ad avere notizie in diretta dall’Antartide e Marino, che sta bene, mi ha confermato che un aereo con a bordo  il pilota, il co-pilota e il meccanico, tutti e tre canadesi (la società che fornisce questi aerei da lavoro è canadese) è caduto a circa metà strada  del tragitto in una zona remota delle montagne trans antartiche a 3900 metri di quota. La causa più probabile considerata è il forte maltempo che in quella zona ancora permane (venti fino a 100 nodi) e impedisce l’arrivo diretto dei soccorsi nella zona dell’incidente. Purtroppo oggi le notizie sono che il relitto del velivolo è stato avvistato e  non ci sono superstiti. Bruttissime notizie dunque; in Base sono tutti molto addolorati. Le persone di questo equipaggio erano peraltro molto conosciute e con loro c’erano continui rapporti di lavoro e umani.

Questi eventi ci ricordano come la ricerca in queste aree remote sia sempre molto “estrema” e che il personale tecnico ed i ricercatori rischiano veramente la vita per poter eseguire i loro studi. Fare il ricercatore non è sempre solo un tranquillo giochino di laboratorio.

Nonostante questi eventi tragici il lavoro in Base continua ed ecco quanto Marino ci ha inviato ieri:

Base Antartica Italiana “Mario Zucchelli” in mezzo alla bufera di neve (foto Marino Vacchi ISMAR-CNR)

“27 Gennaio 2013, Base Antartica Italiana “Mario Zucchelli” (Baia Terra Nova, Mare di Ross; 74°41’Sud /164°11’E). Da due giorni tempo pessimo! Una tormenta di neve impedisce qualsiasi attività logistica e scientifica all’esterno. Intorno alla Base, nei punti meno battuti dal forte vento, vi sono cumuli di neve di almeno un metro e mezzo. Al ritorno del buon tempo la priorità operativa sarà di togliere la neve intorno alla Base: il personale logistico e le guide con i mezzi spalaneve ripuliranno i passaggi tra le diverse strutture della Base; i ricercatori e tecnici daranno una mano con le pale. Questa attività verrà fatta molto velocemente per poter riprendere al più presto le uscite di carattere scientifico. Il tempo infatti stringe e rimangono soltanto pochi giorni di operatività prima della chiusura della Base che avverrà i primi giorni di Febbraio .

 

Ricercatori impegnati in campionamenti nella banchisa (foto Vittorio Tulli CNR-SRT)

Come sapete, la ragione della mia presenza a Baia Terra Nova è una specie che riveste attualmente un interesse prioritario nella ricerca ecologica antartica, l’Antarctic silverfish (Pleuragramma antarcticum). Questo piccolo pesce è al centro delle catene alimentari locali e fonte diretta o indiretta di tutti   i predatori di apice, dai pinguini alle foche, ai  cetacei. Ma non basta, perché proprio grazie alle ricerche condotte qui è stata individuata una  relazione particolare tra il silverfish e il ghiaccio marino. Infatti enormi quantità di uova di silverfish in fase avanzata di sviluppo embrionale sono state scoperte a Baia Terra Nova (Mare di Ross) sotto la banchisa, dove si sviluppano tra cristalli di ghiaccio, a temperature al limite del congelamento  (-1.92°C) come vi ho fatto vedere con un immagine nel predente collegamento. Ora il problema è capire il ruolo del ghiaccio marino nel  ciclo vitale di questa importante specie ittica. La riproduzione del silverfish avviene obbligatoriamente sotto la copertura di ghiaccio? Se si, quale è il grado di vulnerabilità di questa specie di fronte alle variazioni nelle dinamiche di formazione stagionale del ghiaccio antartico, legate all’attuale cambiamento climatico?  Tutti i campioni che riuscirò ad analizzare saranno preziosi  per migliorare le conoscenze su questa specie. Ogni  tassello di conoscenza sul ciclo vitale del silverfish e sul  suo rapporto con il ghiaccio marino,  risulterà un passo in avanti  nella nostra conoscenza e capacità di valutare il grado di vulnerabilità delle specie  e degli ecosistemi  di fronte ai cambiamenti climatici.”

Marino Vacchi 

 

Se avete domande o curiosità su questo straordinario ambiente o sulla vita dei ricercatori in Antartide fatele direttamente dal blog, Marino ha la possibilità di rispondervi subito o con un post molto più articolato che pubblicheremo come aggiornamento settimanale di questo viaggio ai confini del mondo.

Al prossimo appuntamento con “Voci dall’Antartide” un collegamento realizzato per gentile concessione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide.

 

Scoperti dal CNR i primi “camini di pietra” del Mediterraneo

Un grande risultato scientifico è stato raggiunto dalla prima missione della campagna oceanografica ‘ALTRO’, a bordo della nave oceanografica Urania del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), diretta da Marco Taviani e Lorenzo Angeletti dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR-CNR) nell’ambito del progetto europeo CoCoNet (Towards COast to COast NETworks of marine protected areas coupled with sea-based wind energy potential), che ha svelato l’esistenza di ambienti sommersi e formazioni calcaree di grande rilevanza scientifica mai osservati prima in Mediterraneo. L’esplorazione dei canyon sommersi al largo delle coste del Montenegro è stata realizzata mediante un piccolo veicolo sottomarino manovrato dalla superficie, un ROV (Remotely Operated Vehicle), che ha individuato l’area costituita da queste inusuali formazioni calcaree.

Le prime immagini catturate con il ROV dei camini di pietra scoperti in Mediterraneo

Sono state individuate, a circa 450-500 metri di profondità al largo delle coste del Montenegro, delle vere e proprie ‘foreste’ costituite da “camini calcarei” che fino ad ora erano state documentate solo al largo della nuova Zelanda e delle coste pacifiche del Nordamerica.

“Alcuni di questi camini, che superano i 50 centimetri di altezza, sono ancora in posizione verticale, mentre altri giacciono abbattuti sul fondo”, spiega Taviani.

Questi camini naturali che spuntano dal fondale potrebbero essere il risultato, in un passato geologico abbastanza recente, di fluidi ricchi in idrocarburi, probabilmente metano, attraverso la coltre dei sedimenti antichi che formano l’architettura di questo margine continentale”. Secondo Angeletti, “esempi simili sono noti in vari ambienti marini attuali e fossili, ma questa è la prima documentazione Mediterranea di tale entità”.

Durante la stessa campagna oceanografica, alle stesse profondità, sono stati osservati anche formazioni di corallo nero alte fino a due metri, abbondanti coralli bianchi della specie Madrepora oculata, coralli gialli e campi di gorgonie sui fianchi dei canyon balcanici”, aggiunge Paolo Montagna, geochimico dell’IISMAR-CNR.

Alcuni esemplari sono stati prelevati e mantenuti vivi per essere trasferiti negli acquari scientifici del Principato di Monaco. I coralli sono preziosi archivi naturali per studiare processi quali i cambiamenti climatici e l’acidificazione degli oceani.

 Sono veramente felice per il grande successo dei miei colleghi. Potete approfondire la scoperta al sito del nostro Istituto.

Voci dall’Antartide –Vol. 2

Foto della superficie del mare in Antartide, scattata durante una delle crociere italiane (Foto di Gabriele Marozzi ISMAR-CNR)

Prima di proporvi quanto inviato questa settimana da Marino Vacchi (Ricercatore ISMAR-CNR e ISPRA), il nostro collegamento con la base italiana in Antartide situata a Baia Terra Nova nel Mare di Ross, volevo sintetizzare le diverse attività di ricerca che verranno condotte nel corso della spedizione antartica italiana 2012-2013 e che permetteranno di comprendere meglio i processi che generano i cambiamenti globali, i cui effetti hanno riflessi sulla vita di tutti i giorni anche alle nostre latitudini.

 

Nel periodo di campagna verranno realizzati diversi progetti di ricerca riguardanti:

  • – le scienze della vita: biodiversità, evoluzione ed adattamento degli organismi antartici;
  • – le scienze della Terra: glaciologia, contaminazioni ambientali, esplorazioni;
  • – le scienze dell’atmosfera e dello spazio: cambiamenti climatici, monitoraggio della atmosfera e della ionosfera, misure astronomiche;
  • – lo sviluppo e applicazione di strumentazioni tecnologicamente avanzate per misure atmosferiche e geologiche;
  • – le attività di monitoraggio presso gli Osservatori permanenti meteo-climatici, astronomici e geofisici.

Inoltre verranno allestiti e condotti 3 campi remoti che avranno come scopi: la ricerca di meteoriti; misure geodetiche per il monitoraggio geodinamico della “Terra Vittoria Settentrionale”; il campionamento di carote di ghiaccio per lo studio paleoclimatico degli ultimi 2000 anni.

 

Ecco quello che Marino ci ha scritto dal Polo Sud questa settimana: 

 

«Attualmente mi trovo nella Base Italiana Antartica “Mario Zucchelli” a Baia Terra Nova (Mare di Ross). Finalmente è avvenuta la rottura del pack ed è stato possibile  possibile effettuare uscite in mare con il battello costiero SKUA in dotazione alla Base, navigando con attenzione tra il ghiaccio fratturato.

Nell’ambito del PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide) stò svolgendo uno studio che riguarda proprio la relazione tra ghiaccio marino e il ciclo vitale dell’Antarctic silverfish, una specie ittica la cui importanza in Antartide  è paragonabile a quella del krill. Per mezzo di una rete pelagica raccolgo campioni di silverfish che spesso si trovano associati ai banchi di krill nella parte superficiale della colonna d’acqua. Alcune delle analisi biologiche dei campioni di Silverfish vengono già svolte negli attrezzati laboratori della Base; altre più approfondite analisi verranno effettuate presso le strutture dell’ISMAR-CNR di Genova, la mia attuale sede di lavoro.

Questa specie antartica ha modellato il suo ciclo vitale in funzione del ghiaccio ed è stato sorprendente scoprire come questo pesce usi la parte sommersa del pack per l’incubazione delle sue uova. Le uova che “galleggiano”, una volta deposte e fecondate, raggiungono la parte inferiore e sommersa dello strato di ghiaccio.

Uova e larve di Silverfish ritrovate sotto il ghiaccio di Baia Terra Nova (foto Paul Niklen).

Nella foto che vi allego sono riconoscibili gli occhi neri delle larve ancora contenute nelle minuscole uova trasparenti. Abbiamo recentemente filmato, mediante una speciale telecamera in grado di penetrare nel ghiaccio, quantitativi enormi, in tutto lo spessore del pack indagato, di minuscole uova in incubazione frammiste a cristalli di ghiaccio dalle quali, alla fine del lungo inverno antartico, sgusciano milioni di piccole larve, subito attive e pronte ad iniziare la loro grande avventura.

Ancora una volta questo sconosciuto continente e i suoi abitanti riescono a sorprenderci.

Cari saluti dalla Base Italiana Antartica

Marino Vacchi»

 

Se avete domande o curiosità su questo straordinario ambiente o sulla vita dei ricercatori in Antartide fatele direttamente dal blog, Marino ha la possibilità di rispondervi subito o con un post molto più articolato che pubblicheremo come aggiornamento settimanale di questo viaggio ai confini del mondo.

Al prossimo appuntamento con “Voci dall’Antartide” un collegamento realizzato per gentile concessione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide.