Voci dall’Antartide – Vol. 1

Come primo post dell’anno voglio iniziare con un viaggio nell’ultimo continente del nostro Pianeta a essere stato scoperto ed esplorato: l’Antartide.

Dal 15 ottobre 2012 ha, infatti, riaperto i battenti la base italiana in Antartide – Stazione Mario Zucchelli (MZS), situata a Baia Terra Nova, Mare di Ross, con l’avvio della XXVIII campagna antartica estiva 2011-2012 promossa nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) e finanziata dal Ministero per l’Istruzione, la Ricerca e l’Università (vai alla pagina ufficiale delle spedizioni antartiche). In Antartide, oltre alla Stazione Mario Zucchelli, che viene utilizzata solo per l’estate antartica, è operativa per l’intero anno anche la base italo-francese Concordia (Dome C).

In totale nella campagna scientifica saranno coinvolte circa 200 persone, suddivise tra ricercatori, tecnici ed addetti alla logistica, di cui 48 dell’ENEA, 20 del CNR e 9 dell’INGV, a cui si aggiungono partecipanti provenienti da Aeronautica Militare, Esercito Italiano, Marina Militare, VVF, Università, OGS e INAF. La Spedizione si concluderà il 11 febbraio 2013.

Ho chiesto ad un collega, Marino Vacchi, uno dei nostri ricercatori coinvolti nelle spedizioni antartiche partito appena prima di natale per la base Italiana, di iniziare una sorta di collegamento a puntate tramite questo blog.

Marino Vacchi, ricercatore ISMAR-CNR e ISPRA a bordo del battello SKUA presso la Base Italiana in Antartide “Mario Zucchelli”, Mare di Ross; (Foto di Anna Laura Mancia).

Ecco quanto Marino ha scritto per noi:

«Attualmente mi trovo nella Base Italiana Antartica “Mario Zucchelli” a Baia Terra Nova (Mare di Ross). Siamo nel periodo in cui si ha la rottura del pack. In questo periodo (corrispondente alla breve estate australe) dovremmo effettuare uscite in mare con il battello costiero SKUA in dotazione alla Base, navigando con attenzione tra il ghiaccio fratturato. Il mare per ora è ancora tutto ghiacciato per cui non possiamo ancora uscire con l’imbarcazione e ci “accontentiamo” di fare dei campionamenti dai fori nel ghiaccio.

Attendiamo quindi la rottura del pack, che probabilmente avverrà nei prossimi giorni, per poter operare in mare aperto. Non vedo l’ora.

Nell’ambito del PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide) stò svolgendo studi che riguardano alcune specie ittiche di fondamentale importanza per l’ecosistema antartico.

I pesci che popolano l’Oceano Antartico sono organismi eccezionali, risultato di una lunga storia evolutiva che ne ha modificato profondamente le caratteristiche biologiche ed ecologiche per permettere la loro sopravvivenza in un ambiente estremo caratterizzato dalla bassissima temperatura dell’acqua (-1,9 °C) e dalla presenza del ghiaccio. Basti pensare che nelle zone costiere la superficie è congelata per gran parte dell’anno, e che il ghiaccio si forma anche sul fondo del mare (“anchor ice”).

Come rimedio alle basse temperature questi pesci elaborano nel proprio organismo un  antigelo biologico capace di “bloccare” la crescita dei cristalli di ghiaccio che possono raggiungere  l’interno del corpo attraverso le branchie o con il cibo. Alcune specie (ice fish o pesci a sangue bianco) non hanno emoglobina né globuli rossi. L’ossigeno, molto abbondante nell’ambiente a causa delle basse temperature, diffonde in quantità sufficiente nel sangue attraverso le branchie.

Il ghiaccio è dunque elemento caratterizzante e critico nella vita dei pesci antartici. Come si può facilmente intuire, i cambiamenti che già si registrano nella dinamica dei ghiacci antartici non potranno non avere effetti su questi organismi, e ripercussioni  sull‘intero ecosistema.

In un prossimo collegamento vi racconterò nel dettaglio lo studio che stò svolgendo durante questa campagna di ricerca che riguarda proprio la relazione tra ghiaccio marino e il ciclo vitale dell’Antarctic silverfish, una specie ittica la cui importanza in Antartide è paragonabile a quella del krill, che ha modellato il suo ciclo vitale in funzione del ghiaccio. 

 

Esemplare adulto di Silverfish; (Foto di Volker Siegel)

Mentre vi scrivo sta nevicando forte!! Magari delle condizioni climatiche ne parlo nel prossimo pezzo.

Cari saluti dalla Base Italiana Antartica

Marino Vacchi»

Se avete domande o curiosità su questo straordinario ambiente o sulla vita dei ricercatori in Antartide fatele direttamente dal blog, Marino ha la possibilità di rispondervi subito o con un post molto più articolato che pubblicheremo come aggiornamento settimanale di questo collegamento.

Al prossimo appuntamento con  “Voci dall’Antartide” un collegamento realizzato per gentile concessione del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide.

 

Un mare di auguri

Non voglio invadere queste feste con ulteriori parole …………. preferisco concludere il 2012 con una sequenza di dodici immagini “marino-subacquee” ………….

 

………..un post-fotografico anche scaricabile come “Fotocalendario 2013 per il desktop del PC nella speranza che qualcuno dei miei scatti possa diventare un mese del vostro prossimo anno.

 

Un mare di auguri a tutti

 

 

La miopia antropocentrica del Telethon

La storia di Telethon nasce 1966 negli Stati Uniti, quando Jerry Lewis inventa una non-stop televisiva per raccogliere fondi a favore della distrofia muscolare. Una formula di successo che fu adottata, a partire dal 1987, anche in Europa dall’Associazione francese contro le Miopatie (Afm) e nel 1990, grazie all’incontro tra Susanna Agnelli e l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (Uildm), la maratona sbarca in Italia, sulle reti Rai, diventando un appuntamento fisso, conclamato ed amato pronto a superarsi ogni anno.

Gli italiani anche quest’anno hanno donato a Telethon, l’organizzazione senza fini di lucro che ha come obiettivo generale l’avanzamento della ricerca scientifica di eccellenza per lo studio e la cura delle malattie genetiche (ricerca biomedica), oltre 30 milioni di euro, una cifra simile nonostante la crisi, a quella dello scorso anno.

L’attuale presidente della Fondazione Telethon Luca di Montezemolo, dopo aver ricevuto il simbolico assegno con l’ammontare della raccolta fondi ha dichiarato: ”In momenti come questo sono orgoglioso di essere italiano”.

Io che sono un ricercatore di un settore diverso da quello biomedico, ogni anno al contrario, durante questa annuale “fiera medico-mediatica”, pur riconoscendo e rispettando le motivazioni di base che hanno sostenuto questa iniziativa fin dalle origini, non riesco a provare sensazioni di orgoglio nazionale ma solo una crescente sensazione di fastidio.

Sono infastidito quando sento utilizzare il termine “ricerca scientifica” impropriamente. Sono contrariato quando vedo politici, presentatori, attori, cantanti e tutti i variopinti seguaci della non-stop televisiva proclamare con orgoglio di “esserci” per aiutare “la ricerca” dimenticandosi, probabilmente inconsapevolmente, che questa maratona del piccolo schermo è dedicata esclusivamente ad una sola delle altrettanto importanti discipline che costituiscono i fondamentali settori della ricerca scientifica.

Grazie a queste 30 ore di maratona il rischio è quello di ribadire con forza, senza neanche porsi il problema, che l’unica ricerca necessaria ed importante è solo quella dedicata alla salute umana.

Non entro del merito dei presunti successi ottenuti dagli scienziati finanziati da Telethon, non è il mio settore e non voglio cadere in facili errori di valutazione, ma non riesco ad evitare di evidenziare l’assoluto egoismo mediatico di questa iniziativa nei confronti del resto della ricerca scientifica.

La ricerca non è e non deve essere idolatrata solo quando si occupa delle malattie della nostra specie. Questa visione esclusivamente antropocentrica è tremendamente miope e non ci porterà lontano. La cura non deve essere la sola soluzione.

Credo fermamente che non esista coerenza nel tentare disperatamente di aumentare la vita media dell’essere umano senza minimamente preoccuparsi dell’ambiente in cui vive.

Non voglio “vivere cent’anni” in un mondo di veleni ed immondizia e non vorrei negare ai nostri figli, per ulteriore egoismo, un posto in cui vivere con dignità.

Il mare del futuro (Illustrazione di Franco Gambale)

Forse dovremmo, contemporaneamente e con maggiore umiltà, dedicare energia e finanziamenti  anche alla ricerca ambientale (magari con un Telethon per l’ambiente) e a tutte quelle discipline che possono migliorare le cause originarie di molti dei nostri problemi preservando ed aumentando la qualità “della vita” sul nostro pianeta.

Scusate lo sfogo, non voglio passare per un “ecologista isterico”, mi considero ancora un ecologo consapevole, ma che desidererebbe una visione decisamente più ampia nei confronti della ricerca scientifica e che si riuscisse ad organizzare, con lo stesso entusiasmo e con le stesse cifre, anche (e ribadisco anche) un Telethon per l’ambiente, una 30 ore per la fisica, una maratona per le energie rinnovabili, un festival per le eco-tecnologie dando pari dignità ed importanza strategica a tutte le discipline scientifiche.

La mappa dell’impronta ecologica marina (il mondo non è più blu!)

Ho inaugurato questo blog con un articolo intitolato “Il mondo è blu” ma ora, dopo poco più di un mese, mi arrendo all’evidenza che il blu non è la tonalità maggiormente diffusa nel nostro pianeta.

Uno dei primi tentativi di sintesi grafica dell’impatto umano sull’ambiente marino è infatti una “giallissima” mappa, pubblicata nel 2008 in un articolo della prestigiosa rivista scientifica Science, che mette in evidenza come le porzioni incontaminate (aree blu) siano solo il 4% degli oceani del nostro pianeta. Osservando il video della mappa globale ci si rende immediatamente conto che le uniche zone ancora prive di impatto sono in gran parte vicino ai poli, ma appaiono anche lungo la costa settentrionale dell’Australia, e in piccoli, luoghi sparsi lungo le coste del Sud America, Africa, Indonesia e nel Pacifico tropicale.

Mappa globale degli impatti antropici sull’ecosistema marino (Science 15 February 2008: Vol. 319 no. 5865 pp. 948-952)

L’approccio con il quale è stata realizzata la mappa è del tutto simile a quello che consente il calcolo  delle “impronte ecologiche” che le diverse attività umane hanno sul pianeta.

 Ma cosa significa impronta ecologica?

Immaginiamo di poter ricoprire la propria città con una cupola emisferica di un materiale trasparente che permetta alla luce di entrare ma impedisca a qualsiasi altra cosa di entrare e uscire. Per poter sopravvivere in questa “città nella bolla” la dimensione della cupola dovrebbe rinchiudere una quantità di territorio (zone agricole, foreste, fiumi, mare ecc) abbastanza grande da contenere tutte le risorse necessarie per produrre energia, alimenti ed altri beni necessari alla sopravvivenza dei cittadini ed essere in grado di assorbire tutti i rifiuti e l’inquinamento prodotto. Ovviamente l’area di territorio da  rinchiudere  sarà direttamente proporzionale ai tassi di consumo e di produzione dei rifiuti.

Questo esempio è un modo semplice per descrivere il concetto di “impronta ecologica”: l’area totale di ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione di una comunità consuma ed assimilare i rifiuti che la popolazione stessa produce.

L’impronta ecologica (ecological footprint) definisce la “porzione di territorio” (sia essa terrestre o acquatico) biologicamente attivo (la cosiddetta biocapacità) di cui un individuo, una famiglia, una comunità, una città, una popolazione necessita per la completa sostenibilità di tutte le risorse che consuma e dei rifiuti che produce.

L’impronta ecologica è diventato in questi ultimi anni un noto e diffuso indice (spesso misurato in ettari globali) di  “quanta natura consumiamo”.

Impronta ecologica degli stati del mondo , secondo la Global Footprint Network. Il colore più scuro corrisponde all’impatto maggiore (Ecological footprint image courtesy of Wikimedia Commons).

 

Oggi l’umanità per fornire le risorse che utilizziamo e assorbire i nostri rifiuti consuma l’equivalente di 1,5 pianeti e se il trend del consumo non dovesse invertirsi, dal 2030 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per sostenerci. E naturalmente, noi per ora, ne abbiamo ancora solo uno.

“Micro e Nano” inquinamento marino: il piccolo grande rischio

Le microplastiche e le nanoparticelle sono le nuove preoccupanti forme “invisibili” di inquinamento marino delle quali non si conosce ancora il reale destino ambientale.

Sono circa 260 i milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno, dei quali circa il 10 % finiscono in mare e a seguito di un lento processo di degradazione possono, frammentandosi, trasformarsi in micro-particelle di dimensioni variabili tra gli 0,3 e 5 mm, le microplastiche, un problema di cui si è sempre parlato poco ma che sta finendo sotto la lente d’ingrandimento degli operatori di settore.

Questi microframmenti possono arrivare, attraverso la catena trofica, fino ai nostri piatti?

Probabilmente si. Per ora arrivano ad interessare negativamente i grandi mammiferi marini e quindi il rischio di contaminazione anche della catena trofica umana è reale.

Infinitamente piccoli…infinitamente pericolosi? (Illustrazione di F. Gambale)

Le microplastiche impattano pesantemente sul plancton e quindi, a cascata, sugli organismi marini che di esso si nutrono. A questi risultati giunge il primo studio al mondo, appena pubblicato sulla rivista scientifica Marine Pollution Bulletin, finanziato dal Ministero dell’Ambiente della Tutela del Territorio e del Mare e condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Siena.

Le microplastiche però non sono le uniche particelle di piccole dimensioni che minacciano la salute dell’ecosistema marino.

In questi ultimi anni la capacità di manipolare la materia realizzando materiali e dispositivi di piccolissime dimensioni (nanotecnologia) ha prodotto una grande varietà di nanomateriali e nanoparticelle ingenerizzate utilizzate in diversi settori che appartengono ad una scala dimensionale nanometrica. Un nanometro corrisponde ad un milionesimo di millimetro cioè un miliardesimo di metro.

Per farsi un’idea di cosa significhino tali infinitesime dimensioni basti pensare che un normale globulo rosso ha un diametro medio pari a 7000 nanometri (nm).

Nonostante l’entusiasmo per queste grandi “nano-opportunità”, una serie di domande nascono spontanee se si pensa che molto probabilmente, così come la maggior parte dei prodotti di origine industriale, questo esercito di nanoparticelle ingegnerizzate raggiungerà prima o poi il grande serbatoio del nostro pianeta: il mare.

Che fine fanno le minuscole particelle che finiscono in mare? Come si comportano nell’ambiente marino e qual è il loro livello di tossicità? Possono finire anche loro nella catena trofica umana?

E’ un destino ancora poco (o per niente) indagato, quello delle nanoparticelle in mare e le ricadute ambientali in termini di effetti ecotossicologici a carico degli organismi marini e dell’ecosistema risultano quindi di interesse prioritario per la ricerca nazionale ed internazionale.

La presenza di nanoparticelle di carbonio (di colore nero) nel dotto intestinale di un crostaceo marino (plancton) durante un esperimento di tossicità in laboratorio (Foto di G. Greco ISMAR-CNR)

E’ questo appunto il messaggio lanciato dai ricercatori italiani riuniti a Livorno durante la quinta edizione delle giornate di studio “Ricerca e applicazione di metodologie eco tossicologiche in ambienti acquatici e matrici contaminate” concluse la scorsa settimana e che hanno visto nascere un primo gruppo di lavoro nazionale sulla “nanoecotossicologia marina”, nell’ambito della Società Italiana di Nanotossicologia (SIN), composto da ricercatori di università, enti di ricerca, enti governativi, ARPA e laboratori privati.

Alla fine di questo mese molti dei membri di questo nuovo gruppo si troveranno a discutere come attuare questa strategia di sensibilizzazione anche nei confronti del Ministero dell’Ambiente italiano durante la prima edizione del “Marine NanoEcotox Workshop” che si terrà a Palermo presso l’Area della Ricerca del CNR dal 27 al 28  November 2012 durante l’ultima edizione dell’incontro bilaterale Italia-Giappone (BSIJ 2012).

La consapevolezza di un utilizzo sostenibile e privo di rischi delle nanotecnologie deve essere un obiettivo per le prossime generazioni, non dovremmo ripetere gli errori di valutazione fatti in passato per molte delle sostanze chimiche che ancora oggi minacciano la salute del nostro pianeta.

Invito a fare domande e dibattito sull’argomento e vi anticipo che da domani, nella sezione “In primo piano” di Rinnovabili.it, verrà pubblicato un articolo di approfondimento.

La biodiversità portuale

Già durante le prime “immersioni virtuali”, effettuate durante il nostro laboratorio didattico “UnderWaterFront” realizzato per il Festival della Scienza, le immagini, che arrivavano dalle scure acque del porto di Genova, ci avevano subito sorpreso per l’abbondanza e ricchezza di vita che ricopriva qualsiasi struttura immersa nei suoi fondali. 

Il nostro ricercatore Giuliano Greco (ISMAR-CNR) e il video-operatore subacqueo Luca Tassara durante una delle “immersioni virtuali” del laboratorio didattico del festival della scienza 2012.

Eravamo consapevoli di dover “scovare” organismi marini in grado di stupire il pubblico presente in sala ma non avevamo messo in preventivo di essere noi, per primi, a rimanere a bocca aperta quando Luca Tassara, il nostro video-operatore subacqueo ci comunicava e ci mostrava in diretta , grazie alla tecnologia di trasmissione del segnale video e audio, di aver trovato una “foresta colorata di gorgonie” a 14 metri di profondità lungo una parete in cemento del molo della zona industriale del Porto di Genova. Le prime immagini sono state sorprendenti, una fitta colonia di grandi gorgonie gialle, rosse, viola sono apparse nelle torbide acque come se fossimo in immersione in una area marina protetta (vedi video).

Lo stupore è stato collettivo e ci siamo persi per lunghissimi minuti nell’ammirare questo incredibile esempio di “biodiversità portuale” assolutamente inaspettato. Solo quando Luca è riemerso in superficie, inquadrando una nave da crociera e la lanterna del porto sullo sfondo, ci siamo accorti di aver trovato qualcosa di straordinario.

La colonia di gorgonie (Leptogorgia sarmentosa) trovate nel Porto di Genova.

Abbiamo ripetuto alcune immersioni per individuare le aree colonizzate e da  quel momento il nostro laboratorio didattico ha sfruttato questa scoperta facendo ammirare tutti i giorni ai partecipanti questo inaspettato regalo che le acque portuali avevano fino ad ora celato.

La specie in questione è la Leptogorgia sarmentosa, una gorgonia arborescente di consistenza spugnosa, di colore molto variabile, che vive generalmente in acque torbide ricche di nutrimento, esposte alla corrente su fondali fangosi tra i 20 e i 300 metri di profondità e che, francamente, non ci saremmo mai aspettati di trovare su una parete verticale in cemento al centro di un porto industriale dove i grandi traghetti vengono a fare le riparazioni e le operazioni di carenaggio.

La visione in diretta delle “gorgonie portuali” durante il laboratorio UnderWaterFront

Il mare e i suoi abitanti, come spesso accade, ci hanno sorpreso ancora una volta.

Un tuffo nel blu: incontro con Gianluca Genoni

Durante il recente salone nautico internazionale ho accolto l’invito della Fiera di Genova organizzando per il Consiglio Nazionale delle Ricerche l’evento di intrattenimento scientifico “Un mare di scienza”, un appuntamento giornaliero con alcuni degli “Scienziati del Mare” provenienti dai principali istituti nazionali del CNR che hanno offerto la possibilità, ad un pubblico eterogeneo come quello che frequenta il salone nautico, di conoscere il dettaglio delle loro attività di ricerca nell’ambito delle scienze marine.

Il programma dell’evento è stato inaugurato con un incontro/intervista con un caro amico, il primatista mondiale di apnea Gianluca Genoni, che il 28 settembre 2012 si è tuffato fino a -160 metri nelle acque di Rapallo con un propulsore elettrico, tecnica sperimentata con successo già due anni fa in occasione del precedente primato di -152 metri fissato nell’ottobre del 2010 a Zoagli (Genova).

Gianluca Genoni durante l’incontro/intervista al Salone Nautico di Genova

Per me è stato un privilegio poter iniziare questa attività di divulgazione scientifica con Gianluca e discutere, oltre delle sue incredibili imprese, anche del suo personale contributo alla ricerca scientifica. Dal 2002 ha infatti affiancato l’attività agonistica con una serie di studi medico-scientifici legati all’apnea in collaborazione con l’Università di Varese e il CNR.

Gianluca è stato il primo uomo al mondo ad immergersi in apnea a 3000 m di altitudine sotto un metro di ghiaccio per oltre 60 m. Nell’ottobre 2003 in Nepal, nell’ambito di un esperimento medico scientifico, ha compiuto la prima immersione mondiale in apnea a oltre 5200 m di altitudine nella “piramide” ai piedi dell’Everest (laboratorio del CNR di studi e ricerche a elevata altitudine situato nella valle del Kunbu). Genoni ha raccontato che a quella quota, quindi con la pressione e l’ossigeno molto più bassi (circa la metà dell’ossigeno rispetto a quello che c’è a livello del mare) è tutto molto più difficile ed è arrivato a fatica a superare i due minuti di apnea. Abbastanza singolare considerando che in condizioni normali il 26 novembre 2008 ha stabilito il nuovo record del mondo di apnea statica con 18’3″69 (facendo uso di iperventilazione e ossigeno puro), superando di quasi un minuto il precedente primato dell’illusionista britannico David Blaine.

Gianluca Genoni in risalita durante l’ultimo record mondiale (Foto di A. Balbi).

Durante l’incontro al Salone Nautico è stato presentato in anteprima un video, realizzato dall’amico Marzio Cardellini, che sintetizza le diverse fasi del raggiungimento dell’ultimo record del mondo di Gianluca (vedi video). Il video è molto intenso e vi prego di notare, nella sequenza che riguarda l’arrivo a -160 metri, la sensazione di “buio profondo” che a quelle quote l’apneista deve sopportare.

Abbiamo anche strappato a Gianluca la “quasi promessa” di organizzare la sua prossima impresa in mare aperto presso l’unica boa oceanografica d’altura del Mediterraneo (Boa ODAS Italia 1) ancorata su un fondale di oltre 1200 metri. L’idea è affascinante e ci stiamo lavorando. Spero di potervi dare al più presto la conferma definitiva di questo nuovo evento.

UnderWaterFront: viaggio nella vita sommersa del porto

Come ente pubblico di ricerca (Istituto di Scienze Marine – CNR) abbiamo organizzato per tutta la durata del Festival della Scienza di Genova con il patrocinio della Capitaneria di Porto e il Distretto Ligure delle Tecnologie Marine il laboratorio didattico:

Locandina della manifestazione (scarica il pdf qui)

Un evento di intrattenimento scientifico ideato e realizzato dal mio gruppo di ricerca in collaborazione con Sopra e Sotto il Mare e il Servizio Marittimo del Tigullio, che prevede un’immersione virtuale alla scoperta della sorprendente biodiversità presente tra i fondali e le infrastrutture sommerse del Porto di Genova.

Grazie a un’innovativa tecnologia di trasmissione del segnale video e audio di un operatore subacqueo in immersione invierà, nella Sala Leonardo dell’Area della Ricerca del CNR di Genova dove è stato allestito il laboratorio, immagini e suoni documentando in diretta le associazioni biologiche più caratteristiche e peculiari che colonizzano i fondali e le infrastrutture sommerse di un porto.

I biologi marini di ISMAR, con questo sistema illustreranno gli organismi animali e vegetali che si incontreranno durante l’immersione interagendo con un collegamento audio-video con il subacqueo. Anche i partecipanti (specialmente scuole) potranno interagire con l’operatore subacqueo, ascoltare la sua voce e guidare le riprese video creando così un vero e proprio documentario ”in diretta”della biodiversità marina del porto di Genova.

Contestualmente, grazie ad una serie di microscopi collegati con un maxi-schermo, i ricercatori accompagneranno i visitatori direttamente all’interno di una goccia d’acqua di mare per osservare i microrganismi che affollano le nostre acque e che costituiscono la “biodiversità invisibile” del nostro mare spiegando, attraverso una semplice presentazione multimediale,  come semplici interazioni tra “invisibili microrganismi” sia la base per il fondamentale funzionamento del “motore biologico” in grado di sostenere l’intero ecosistema Terra.

Il laboratorio allestito nella Sala Leonardo dell’Area della Ricerca del CNR di Genova (Foto E. Renda)

Da poco abbiamo appena concluso il secondo giorno di attività ed è stata una sorpresa collettiva scoprire che, contrariamente a quanto si potesse immaginare, anche nelle scure acque di un porto esiste una sorprendente biodiversità che merita di essere documentata e conosciuta.

Probabilmente da ora in poi osserveremo con occhi diversi le buie acque del “mare di città”.

Le specie aliene alterano i “sapori del mare”

Molti amici pescatori in questi ultimi anni si sono sempre più speso lamentati di aver catturato “saraghi immangiabili” o addirittura che “esplodevano” durante la cottura. In rete ci sono molti forum (provate a digitare “saraghi immangiabili” o “sarago di gomma”) che sottolineano lo strano fenomeno ed ipotizzano svariate cause per dare un senso a queste anomalie organolettiche. I risultati di un recente lavoro scientifico suggeriscono come la presenza di “specie aliene” nel nostro mare potrebbe essere una delle cause del cambiamento negativo della qualità delle carni dei “saraghi indigesti”.

Ma chi sono questi invasori che colonizzano il nostro mare?

Le specie aliene marine possono diventare un serio problema ecologico ed economico (Illustrazione di Franco Gambale)

Il processo di globalizzazione che caratterizza il nostro tempo, causa cambiamenti inaspettati anche per gli abitanti del “pianeta blu” e oggi le barriere e i limiti tra i mari e gli oceani stanno diventando sempre più valicabili e gli organismi marini ne stanno approfittando per mettere in atto una “invasione silenziosa” di nuovi territori provocando una frammentazione degli ambienti con effetti e conseguenze assolutamente imprevedibili. (altro…)

Il mondo è blu

Non è casuale aver selezionato diverse sfumature di blu per lo sfondo di questo blog dedicato alla parte sommersa del nostro pianeta. 

Se fossimo dei viaggiatori dello spazio con il compito di produrre la prima mappa dell’universo e ci imbattessimo per la prima volta nel nostro pianeta, sicuramente non ci verrebbe mai in mente di chiamarlo “pianeta terra” ma, senza ombra di dubbio, annoteremmo con il nome di “pianeta acqua” quel corpo celeste la cui superficie risulta ricoperta da oceani per la maggior parte della sua estensione. 

Illustrazione di Franco Gambale

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