Accordo COP 21, l’uscita di Trump effettiva solo nel 2020, dice NYT

La notizia della bocciatura, da parte del presidente USA, Donald Trump, dell’accordo sul clima di Parigi, uscito dalla COP21, ha fatto il giro del mondo, scatenando un fiume di reazioni. A guardar bene, però, the Donald ci aveva preparati. Lo stesso ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ospite d’onore al recente “Seeds&Chips 2017”, a Milano, nell’ambito del Food Innovation Summit (8-11 maggio 2017), aveva tracciato un quadro molto chiaro delle misure meno restrittive nei confronti dell’impatto sul climate change che la nuova amministrazione americana aveva già iniziato a varare, pur affermando che questo è il bello della democrazia e che un vasto sistema di misure preventive è ormai in atto da anni in molte grandi aziende americane. Ma tant’è. Nel coro di voci levatesi a difendere l’importanza del rispetto del patto sul clima di Parigi, fra le altre istituzioni, quella del Consiglio Nazionale delle Ricerche, presente per la prima volta, dal 1946, alla parata storica della Festa della Repubblica, celebrata il 2 giugno a Roma. “Il successo mondiale raggiunto recentemente con l’accordo di Parigi sul clima per il futuro dei nostri figli e nipoti – ha detto Massimo Inguscio, presidente del CNR e della Consulta dei presidenti degli enti di ricerca pubblica – grazie allo straordinario gioco di squadra e senso di responsabilità di tutte le nazioni e leader di governo del mondo, sono stati possibili grazie al prezioso contributo delle ricerche e scoperte indipendenti delle migliori ricercatrici e scienziati dei principali enti di ricerca e università dei diversi paesi, tra cui l’Italia e, tra i suoi enti, i ricercatori del CNR”. Inguscio ha ricordato poi “la risposta immediata dell’appassionata comunità scientifica italiana e internazionale”, che è andata a intersecarsi con “le dichiarazioni dei leader europei, tra cui il presidente del Consiglio, Gentiloni, assieme alla cancelliera Merkel e al presidente francese Macron e delle altre nazioni”, a cui egli si è associato “nel ribadire l’importanza fondamentale degli obiettivi e impegni presi e sottoscritti negli accordi di Parigi sul clima”. Un impegno, ha concluso il presidente del CNR, che si declina “con l’impegno per il rispetto e la conservazione della terra e dell’ambiente, e per l’unico futuro possibile per le generazioni in Italia, in Europa e e nel mondo, come meravigliosamente sostenuto da Papa Francesco nella sua bellissima enciclica Laudato Si’, di cui il Santo Padre ha donato una copia al presidente americano Trump durante la recente visita in Vaticano”. Ripensando alle immagini e alle parole di quel colloquio che ha rubato l’attenzione di tutti i media del mondo,  ci si rende conto che il Presidente americano ha fatto ormai delle fughe in avanti, con effetti spiazzanti – sulle relazioni politiche sia esterne che interne al Suo paese – una cifra del suo mandato. Un video imperdibile pubblicato oggi dal New York Times, che è anche il più scaricato fra quelli proposti, in 2 minuti e 49 secondi ha condotto un Fact Check sull’uscita di Trump dall’accordo di Parigi, https://www.nytimes.com/video/us/politics/100000005141089/fact-check-trump-exit-paris-climate-accord.html?hp&clickSource=story-heading&WT.nav=top-news&action=click&pgtype=Homepage&module=VideoThumb&region=AColumn 

Nel video gli autori verificano una per una le affermazioni del Presidente, spesso segnalando delle distorsioni, a partire dall’affermazione che l’accordo non è stato imposto in modo punitivo agli USA, ma che questi vi hanno aderito liberamente, insieme ad altri 194 paesi. Eppoi: Trump sostiene che l’accordo costerà 2,7 milioni di posti di lavoro persi entro il 2025 ( anno entro il quale si dovrebbero ridurre le emissioni di anidride carbonica del 26 per cento), citando lo studio sponsorizzato condotto da un centro di ricerca americano – evidentemente non indipendente- , dal quale emergerebbe che l’economia non trarrebbe beneficio dalle innovazioni in campo energetico. Molti business leaders di aziende come  Adobe, Apple, Facebook, Google, Morgan Stanley, Unilever e tante altre ancora, in una lettera aperta a Trump hanno affermato viceversa la spinta propulsiva delle innovazioni che hanno sempre creato nuovi mercati e nuovo lavoro, contribuendo a prevenire i disastri naturali correlati al climate change. E ancora: il presidente USA ha minimizzato gli effetti sull’abbassamento della temperatura globale, a partire dal 2100, se gli accordi venissero rispettati in toto, citando, a suo dire, uno studio dell’MIT. Subito, dalle colonne del Washington Post, i ricercatori si sono affrettati a smentire, dichiarando che se i paesi onorassero gli impegni presi, il global warming potrebbe rallentarsi in modo significativo (1,7 gradi Fahrenheit ). Tante le affermazioni fatte da the Donald e smentite dagli studi scientifici, non ultima quella relativa agli USA che  ora vanno verso “un’aria e un’acqua più pulita”, ma lo Yale University’s Performance Index posiziona gli USA al 43^ posto per la qualità dell’aria e al 22^ posto per la salute dell’acqua fra 180 paesi. E infine, osserva il New York Times, Trump ha abbandonato l’accordo e proposto tagli ingenti per la protezione ambientale. Tuttavia, gli Stati Uniti non potranno uscire formalmente dagli accordi di Parigi fino al 4 novembre 2020, il giorno dopo le nuove elezioni presidenziali americane. E questo lascia tutte  le prospettive aperte.

La disoccupazione logora gli italiani. E solo uno su 10 ha fiducia nel Governo e Parlamento

Chiunque si accinga a formare il nuovo governo, butti l’occhio (per piacere) sull’indagine Eurobarometro Standard 80, il sondaggio più importante  condotto a livello europeo, a partire dal 1973,  sulle opinioni dei cittadini UE, attraverso domande sui principali temi  della politica europea e sulle tematiche più pressanti.Cosa dicono i sondaggi condotti su scala europea  tra il 2 e il 17 novembre 2013  per conto della Commissione europea fra i 28 Stati membri e i cinque paesi  candidati all’adesione (Turchia, Islanda, Serbia, Montenegro ed ex Macedonia)? Raccontano di un Europa che inizia ad essere lambita da un cauto ottimismo ( 51% degli intervistati) e di un Italia nella quale, viceversa, serpeggiano il pessimismo ( soltanto il 40% gli ottimisti) accanto ad una generalizzata sfiducia nelle istituzioni.In un contesto nel quale la crisi economica perdurante fa sì che la disoccupazione sia ritenuto il maggior problema del paese  per oltre un italiano su due (56%, contro il 49% europeo), accanto alla situazione economica (il 42% contro il 33% degli intervistati europei), il dato sulla sfiducia nelle istituzioni è a dir poco agghiacciante. Soltanto un italiano su dieci (!) del campione analizzato  nutre fiducia nel Governo e Parlamento nazionali – in calo rispettivamente dall’11% e dal 12%  dell’ultimo sondaggio-  mentre la fiducia nelle autorità   locali e regionali è inchiodata al 14% (in calo dal 15%).Va molto meglio per le istituzioni europee, pur se in presenza  di un calo di fiducia rispetto alle precedenti rilevazioni: la fiducia nella Commissione europea  passa dal 35% al 32%, quella nel Parlamento europeo dal 41% al 36%. Mentre – udite, udite – l’operato di Supermario Draghi  porta la fiducia nella Banca Centrale Europea  dal 28% al 31%. A dispetto dei luoghi comuni, la moneta unica  resta un punto fermo, con la maggioranza  degli italiani (53%)  e  degli europei (52%) che si esprime a favore dell’Unione economica e monetaria. Il 66% degli italiani si dice inoltre favorevole  a una nuova  governance economica europea,  con l’approvazione preventiva dei bilanci  da parte delle autorità europee ( la media UE è del 58%). Anche la supervisione  centralizzata a livello Ue delle banche è vista con favore dal 69% degli italiani ( 70%  in Ue).  Sarà poi per via del fatto che per oltre un europeo su cinque (21%) la pressione fiscale  è il principale  problema in Europa, accanto all’inflazione (17% del campione), fatto sta che il 60% degli italiani è favorevole alla nomina di un ministro  delle Finanze dell’Unione europea,  con una percentuale  che evidenzia come soltanto il Belgio  e la Croazia (62%) con il Lussemburgo ( 61%) registrino consensi superiori. Anche sul piano della politica industriale si nutre aspettativa per il ruolo che può essere giocato dall’Ue: il 68% degli italiani  e il 73% degli europei pensa che sia importante aiutare la base industriale  europea per renderla più competitiva, promuovendo l’imprenditoria e le nuove competenze.

Italiani felici dunque di essere e di sentirsi europei? Non è così. Sul piano del sentimento di cittadinanza, oltre un italiano su due – il 53% –  dice di non sentirsi un cittadino UE. Il 79% degli italiani  non si sente “ascoltato” in Europa, e secondo il 55% degli intervistati l’Europa non va nella giusta direzione ( in aumento rispetto al 45% dell’ultimo sondaggio), opinione condivisa dal 47% degli europei. Il mal di pancia dei cittadini europei risiede forse nel fatto che sentono Bruxelles troppo lontana, autoreferenziale, poco impegnata nel far conoscere la propria azione, fautrice delle politiche del rigore ( 59% del campione italiano contro il 63% di quello europeo) e troppo light   di fronte all’emergenza lavoro.Il 64% degli intervistati italiani sono convinti  che l’UE non stia ponendo i presupposti  per creare più lavori. “I dati emersi – ha commentato il Vice Presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, al termine della presentazione del Rapporto sull’Italia, presso la sede della rappresentanza in Italia  della Commissione Europea, a Roma – indicano che gli italiani chiedono un cambio di marcia. Come Commissario  all’Industria non posso  non raccogliere il grido di dolore  delle imprese  che, in assenza di riforme e di interventi strutturali in Italia non potranno sopravvivere nei prossimi anni. I dati dicono tuttavia  che c’è bisogno, tuttavia, anche di un cambio di passo in Europa. Chiedono all’Europa di far sentire la sua forza, il suo peso politico nelle grandi questioni internazionali, di esprimere la propria capacità di incidere nel contesto globale, giocando un ruolo che un singolo stato non può essere in grado di giocare”.

Scacco alla disoccupazione con l’energia delle professioni “green”

Il periodo è di quelli neri che più neri non si può. Disoccupazione giovanile ai massimi storici da 20 anni a questa parte, deficit di futuro per i giovani e uno scenario per i prossimi mesi di incertezza assoluta. C’è un contesto “liquido”- ha sottolineato nei giorni scorsi ad Arezzo il Ministro Francesco Profumo –   nel quale i giovani dovranno imparare a convivere con periodi di lavoro alternati a  periodi di ritorno allo studio, perché la società industriale dove i loro padri, dopo aver studiato, trovavano lavoro, non esiste più. Ma un nuovo modo di concepire la formazione, dai banchi della scuola superiore, all’Università, al mondo del lavoro, nel rispetto delle istanze del territorio, della valorizzazione del patrimonio culturale e della sostenibilità ambientale può offrire una concreta chance di governare il futuro ai nostri ragazzi. A spiegare come agire in questa visione rinnovata del rapporto fra  scuole, atenei, imprese e territorio è stato Luigi Biggeri, ex presidente dell’Istat e osservatore perspicace dei cambiamenti della società. Biggeri, originario del casentino, quindi toscano doc, ha condotto una analisi lucida e feroce rispetto al mismatch che corre fra la domanda e l’offerta di lavoro sul territorio aretino:  da una parte i giovani neodiplomati conseguono mediamente un voto di maturità più alto rispetto alla media nazionale, ma incontrano una enorme difficoltà  sia  nello scegliere la facoltà che meglio risponde alle loro aspirazioni, sul territorio; dall’altra, le  famiglie devono sobbarcarsi costi troppo onerosi per far studiare  un figlio iscritto  fuori sede o che lavora in un’altra città. Viceversa, un’efficace incontro fra istanze del territorio, atenei maggiormente collaborativi con le esigenze delle imprese, giovani e scuole  potrebbe riuscire a far conseguire la quadratura del cerchio. Troppo spesso, infatti – è emerso nel corso della giornata su Scuola, Università e Lavoro, promossa  ad Arezzo dal presidente del Polo Universitario Aretino, Luigi Biggeri e dal presidente della Camera di Commercio di Arezzo, Giovani Tricca – la divaricazione fra la richiesta  e l’offerta sul mercato del lavoro è stridente. E l’iniziativa organizzata dai promotori della giornata aretina, in collaborazione con il MIUR, ha puntato a rimuovere le criticità nello sviluppo del capitale umano, sia attraverso scelte maggiormente informate da parte degli studenti, sia con un più assiduo orientamento formativo per gli studenti.Per arginare il fenomeno del 20% degli studenti immatricolati che entro il primo anno di studi abbandona l’Università, quello del ritardo accumulato per il conseguimento della laurea triennale (in media si impiegano 4,7 anni), e quello degli studenti pentiti della  propria scelta universitaria (il 23 per cento), – accanto alle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, mentre le imprese spesso non trovano le figure professionali –  occorre creare un ponte sistematico fra scuola, università e mercato del lavoro – ha detto Luigi Biggeri. L’esperienza condotta dal Polo Universitario aretino, che promuove, coordina e organizza attività formative di terzo livello, puntando ad una stretta interazione sul territorio, in collaborazione con scuole secondarie superiori, università, imprese e istituzioni, può rappresentare una best practice da replicare a livello nazionale. Sia agli studenti che devono compiere la scelta formativa, sia ai giovani laureati, si   offrono una serie di servizi, di orientamento e informativi, volti a consentire lo sviluppo  delle proprie competenze a beneficio del  territorio in cui sono cresciuti. Arezzo – ha sottolineato Biggeri – può diventare un “laboratorio esempio” per il Paese, ma l’Università italiana deve rimodulare profondamente  il suo rapporto con il mercato del lavoro e con i vari territori, sforzandosi di intercettarne i bisogni formativi”. Come? Ad esempio offrendo corsi telematici, flessibili nel corso degli anni e adattabili alle esigenze espresse dal territorio e dal tessuto produttivo, con uno sforzo coordinato di tutti gli attori coinvolti – imprese, scuole, università, laboratori di ricerca,  ragazzi testimonial più grandi che hanno vissuto in precedenza la stessa esperienza -, ha sottolineato il Ministro Francesco Profumo presente al convegno –  per un orientamento assiduo e costante nei confronti dei giovani.  Andrea Cammelli, creatore di AlmaOrientati e Alma Diploma, servizi avanzati già adottati da molte scuole, che hanno raccolto l’apprezzamento del Ministro Profumo, sviluppati per aiutare i giovani a capire le proprie aspirazioni e aspettative rispetto alla scuola superiore, all’Università e al mondo del lavoro, ha insistito sulla valenza decisiva dell’orientamento per i giovani.  Specularmente, ha illustrato l’opportunità  disponibile per le aziende di selezionare i profili idonei, attraverso la banca dati Almalaurea. A Rinnovabli.it  Cammelli ha fornito dati significativi sia sulle aziende operanti nel settore green in Italia, che consultano Almalaurea per l’identificazione dei profili cercati, sia sulla richiesta di professioni green in Italia. Lombardia  e Lazio, con 60 mila aziende la prima, oltre 30 mila il secondo, sono le regioni con i numeri più importanti, seguite dalle 2 mila aziende dell’Emilia Romagna.  Fra le aziende considerate – un centinaio, che usano Almalaurea – figurano anche le piccole piccole aziende del settore edilizio che montano impianti fotovoltaici.Dal gennaio 2011 ad oggi i Curricula che  sono stati scaricati dalle aziende hanno riguardato  4mila 779 laureati specialistici in biologia, 9mila 506  laureati specialistici e specialistici a ciclo unico del gruppo agrario e 1736 laureati specialistici in Ingegneria per l’ambiente e il territorio. Quanto alle Camere di Commercio, che veicolano l’offerta di lavoro da parte delle imprese sul territorio,il presidente della Camera di Commercio di Arezzo, Giovanni Tricca e Domenico Mauriello, responsabile centro Studi di Unioncamere hanno citato il sistema creato per informare i giovani  e far loro conoscere ciò che le imprese richiedono. Le Camere di Commercio hanno realizzato alcuni strumenti, fra i quali figura il progetto Excelsior, un sistema informativo per conoscere il fabbisogno occupazionale e formativo, realizzato dal 1997, in collaborazione con il Ministero del lavoro e l’Unione Europea. Si basa su un campione di circa 100 mila imprese che mettono  a disposizione una serie di informazioni sulla domanda di lavoro nelle imprese”.Dalla banca dati Excelsior, spicca la richiesta per le professioni legate alla “green economy” e alla valorizzazione del patrimonio culturale.

E’ la cultura l’energia rinnovabile per la rinascita italiana

Agli “Stati generali della Cultura” promossi dal più importante quotidiano economico nazionale giovedì scorso, 15 novembre, al teatro Eliseo, a Roma – insieme all’Accademia Nazionale dei Lincei e all’Enciclopedia Italiana Treccani -, in una platea gremita come accade soltanto per gli eventi eccezionali, un’unica idea condivisa ha sospinto i partecipanti a restare lì tutto il giorno, a dibattere sui temi del “Manifesto della Cultura”, lanciato lo scorso febbraio dal Sole24Ore: l’idea che la cultura e la ricerca scientifica, insieme al patrimonio storico, artistico e paesaggistico, costituiscono la nostra più inestimabile ricchezza, anima ed essenza  del nostro essere, della nostra storia, delle nostre vite. In una parola, unica “energia rinnovabile” da cui l’Italia può ripartire, per rialzare la testa e ridisegnare il proprio futuro. Bisogna aver vissuto quell’esperienza in teatro, per capire il clima che si respirava: c’era l’aria delle cose belle a cui si è felici di partecipare. Elettrizzati.Incuriositi. Partecipi. Vivi. Da una parte, gli ospiti sul palco, che sviluppavano il  dibattito, ricevendo sollecitazioni  e più d’una protesta dal pubblico. Dall’altra, il pubblico partecipe, con le insistenze di qualcuno che  interveniva, protestava, replicava, tuttavia sempre nei limiti  del rispetto, di un confronto serrato, ma civile, a cui purtroppo non siamo più abituati. L’Italia deve ripartire da cultura e ricerca scientifica? Non ha  avuto dubbi il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano,  nel rivendicare che sì, da lì bisogna ripartire. Ha citato l’articolo 9 della Costituzione, il Capo dello Stato – “La Repubblica  promuove lo sviluppo  della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione” – , sottolineando come  in due righe  i padri dell’Assemblea Costituente avessero abbracciato ” tutte le idee di cui stiamo parlando”. “Quante sono oggi le istituzioni che promuovono e tutelano ?- si è chiesto il Capo dello Stato. “Quale peso – ha proseguito Napolitano – si sta di fatto riconoscendo  a quel dettato costituzionale, e dunque a una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell’economia e dell’occupazione dall’altra?” E ancora, ha incalzato il Presidente della Repubblica, sottolineando di non voler ragionare “soltanto in termini economici”, “quale peso  si sta riconoscendo al rapporto tra cultura e scienza, ulteriore incivilimento del Paese, benessere dei cittadini misurato secondo nuovi indici qualitativi, valorizzazione  dell’identità e del prestigio nel mondo?”.  Non si può soltanto  valutare “quale aiuto diano alla crescita del prodotto lordo la cultura e la scienza, ma come esse siano parte integrante del nostro stare nel mondo, con il profilo e il prestigio  che le generazioni che ci hanno preceduto hanno assicurato all’Italia”. E poiché a questi fattori  si sta prestando un’attenzione “assolutamente inadeguata, intendo porre  – ha detto il Capo dello Stato – questo problema in via prioritaria e di principio”. Si è espresso “con spirito critico anche  nei confronti dell’attuale Governo”, Giorgio Napolitano, pur sottolineando il “recupero incontestabile di credibilità  e di ruolo  in Europa e nel mondo” che si deve al Governo Monti. Tuttavia, ha sostenuto il Capo dello Stato, quando si mette mano alla spesa pubblica “non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente”. Se è vero che “resta indispensabile perseguire gli obiettivi rigorosi, concertati in sede europea, di riduzione della spesa pubblica e di contenimento della sua dinamica” (…) è “fatale  – si è chiesto il Presidente – che per riuscire in  questo sforzo di risanamento  della finanza pubblica si debba procedere  con tagli lineari a impegni di finanziamento in ogni settore di spesa, senza  senza tentativi di far emergere una nuova scala di priorità  nella ripartizione delle risorse?”. Occorre una nuova logica – è il pensiero di Giorgio Napolitano,  salvaguardando una quota accresciuta di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico a artistico”. Il Capo dello Stato lo ha ricordato: è difficile dire dei “sì” e dei “no”, ma “questa è la politica”, in questo si manifesta la responsabilità. E occorre dire ” più  a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del patrimonio”. Non poteva mancare il riferimento ai talenti e alle eccellenze, nella ricerca scientifica, che l’Italia vanta in alcuni campi fondamentali, spesso ignorati  sia dalle istituzioni, che dall’opinione pubblica, ha detto Napolitano. Un pensiero  va ai tanti scienziati che lavorano nelle istituzioni europee  e con essi all’esigenza sia di capacità operative, sia di liberarsi dal peso della burocrazia e della “foresta legislativa”.Infine, un appello alla capacità di innovare anche nelle istituzioni che si occupano di scienza e di cultura, accanto alla scelta dei soggetti che  devono esprimere le capacità per una nuova politica e una nuova visione della cultura; la considerazione che occorre  porre attenzione sulla necessità  di una capacità progettuale, gestionale e realizzatrice   e l’invito a una “mobilitazione nuova” negli investimenti pubblici e privati  per la ricerca. Infine, un cenno quasi complice alle “impazienze” espresse in sala: “Ho fatto nel passato il comiziante (…) ma oggi faccio un altro mestiere e vorrei dire con molta pacatezza: fate valere  le vostre legittime preoccupazioni, esigenze, insofferenze, proteste, fatele valere con il  massimo sforzo di razionalità e responsabilità, perché solo così potremo portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi”. Un discorso storico, lucido, appassionato, coinvolgente: da far leggere sui banchi di scuola. Da lì inizia la sfida  dei futuri cittadini.            

L’Aquila, una sconfitta per tutti

Ho parlato casualmente qualche giorno fa con un qualificato osservatore italiano che lavora in Ucraina, chiedendogli se, all’indomani della sentenza dell’Aquila per omicidio colposo plurimo, emessa nei confronti degli esperti della Commissione Grandi Rischi – che all’epoca della scossa di terremoto dell’Aquila, il 6 aprile 2009, erano in carica – fosse giunta eco in quel Paese e che cosa ne pensasse. La notizia ha viaggiato in rete alla velocità della luce e mi interessava conoscere l’opinione di un osservatore “freddo”, equidistante, che nella vita non fa lo scienziato e non ha a che fare con i movimenti tellurici. Mi ha risposto che sì, era giunta notizia anche a Kiev, dove lavora in una istituzione, ma che non avendo letto la sentenza e la motivazione, non si riteneva in grado di esprimere alcun giudizio. Mi sono chiesta se, avendo avuto io stessa il privilegio di lavorare per tanti anni a contatto con la comunità scientifica, nell’ambito della comunicazione, mi sentissi in grado di formulare con sicurezza un giudizio su questa vicenda che, oltre ai titoli dei giornali, coinvolge persone in carne e ossa, famiglie con i loro incolmabili dolori e, dall’altra parte, esperti di fama internazionale, chiamati a mettere al servizio della collettività le loro competenze.

Ho avuto la conferma che è difficilissimo formare un giudizio su un tema così delicato, se non si è in possesso di tutti gli elementi. Tuttavia, l’impressione è quella, amara, di una sconfitta per tutti. La comunità scientifica risulta colpita. Il diritto, rischia di ottenere il risultato opposto a quello atteso: anziché incidere sul rafforzamento del sistema delle responsabilità, in prima battuta sembra preludere all’abdicazione delle strutture dotate di expertise scientifiche. E’ l’allarme lanciato da 253 funzionari del Dipartimento della Protezione Civile, che in una lettera aperta pubblicata ieri on line hanno dichiarato di temere di “ritrovarsi soli e indeboliti, senza il supporto della comunità scientifica, dopo la sentenza del 22 ottobre 2012″. ”Penso che aver affidato le decisioni politiche a un comitato di tecnici sia stato l’errore dell’Aquila” – ha dichiarato all’Ansa il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, all’indomani della sentenza. “Deve cambiare o essere più chiara la catena del comando. Non si può chiedere a tecnici e scienziati di assumersi una responsabilità che dovrebbe essere amministrativa e in ultima istanza politica”. Clini ha acceso un faro sulla responsabilità della macchina dello Stato, quell’insieme di leggi, uomini e strutture sulle quali, in origine, si è fondato lo stato unitario.

Per associazione di idee, l’evocazione del ruolo della “macchina dello Stato” mi ha riportato alla mostra che in occasione delle celebrazioni dei 150 dell’Unità d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri promosse con l’Archivio Centrale dello Stato,dal settembre 2011 al marzo 2012, a Roma. Fra i contenuti, le immagini e le testimonianze esposte in un percorso che “si riferiva – sono parole del Sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, Agostino Attanasio – a ciò che lo Stato ha fatto nei diversi ambiti dell’organismo sociale, agli ordinamenti che ha stabilito, ai sedimenti organizzativi che ha depositato”, due cose mi colpirono particolarmente: i nomi degli scienziati che sedettero nei Parlamenti dell’Italia post-unitaria e le immagini del terremoto calabro-siculo del 28 dicembre 1908, con le conseguenze che produssero sull’organizzazione della “Macchina dello Stato”. Partiamo dagli scienziati, grazie alla cui spinta civica, formalizzata con la prima riunione a Pisa, nel 1839, l’Italia compì il primo passo di un’incalcolabile serie di progressi, sia nella fase pre-unitaria risorgimentale, sia dopo l’unificazione, realizzando avanzamenti sia nelle conoscenze, sia nel favorire il riscatto degli strati sociali più svantaggiati. Fu lo scienziato Quintino Sella a conseguire il pareggio di bilancio, nel 1876, in una Italia post-unitaria il cui disavanzo, dieci anni prima, nel 1866, al termine della Terza guerra d’Indipendenza, era oltre la metà delle spese effettive e il debito era pari a circa tredici volte le entrate tributarie. Furono senatori del Regno d’Italia Cesare Correnti, due volte ministro della Pubblica Istruzione, che si batté per l’obbligatorietà della scuola elementare, all’epoca solo di un biennio; Angelo Mosso, fisiologo, che forte del suo prestigio scientifico propose la riduzione dell’orario di lavoro a dieci ore. Edoardo Perroncito, medico, che riuscì a debellare l’anemia dei minatori che mieteva vittime fra gli operai impegnati negli scavi per i trafori alpini. Scienziati di spicco come Vito Volterra e Gustavo Colonnetti, che nel secolo scorso furono presidenti del CNR, sedettero negli scranni più alti: il primo, nominato nel 1905 senatore del Regno per meriti scientifici; il secondo, deputato dell’Assemblea Costituente nel 1946. E ancora, icone di modernità, come Guglielmo Marconi, che Premio Nobel per la Fisica, fu anche senatore del Regno e presidente del CNR. Tutti, maestri nel fare del metodo scientifico un formidabile strumento per la costruzione sia della “macchina dello Stato”, sia della sua amministrazione. Innovatori e precursori al tempo stesso. In quell’Italia post-unitaria si situò l’emergenza dei terremoti, con una lunga serie di eventi drammatici – come documenta la studiosa Fosca Pizzaroni nel catalogo della mostra “La Macchina dello Stato”. E nasce, in nuce, il sistema di prevenzione, monitoraggio, protezione e intervento.

“Nel 1881 – scrive la studiosa – si manifestarono eventi simici in varie zone della penisola ed è in quest’anno che troviamo le prime tracce di documenti tra le serie documentarie del Ministero dell’Interno e di interventi legislativi in materia. Ma è con il disastro di Casamicciola (1883) e il sisma della Liguria (1887) che si hanno provvedimenti normativi di importanza basilare: le prime leggi contenenti norme in caso di terremoto”.

Con i movimenti tellurici della Calabria (1905) e il terremoto siculo-calabrese (1908), infine, la normativa vede uno sviluppo fortemente innovativo: per la prima volta si nota la volontà di definire procedure di intervento, sia riguardo ai primi soccorsi, sia in materia di ricostruzione con metodi antisismici e sia sulle modalità di impiego delle somme raccolte. Inoltre, viene ampliata la portata delle disposizioni, con riferimento al fenomeno economico nella totalità dell’impatto socio-ambientale, con un occhio “alle problematiche relative all’istruzione, alla produzione agraria e industriale, alla viabilità e all’attenzione per l’ambiente”. All’evoluzione normativa fa da contraltare quella degli apparati burocratici.

All’indomani del terremoto della Calabria, del 1905, nasce l‘Ufficio provvisorio dei servizi di beneficenza per i danni del terremoto nelle Calabrie, in seno alla divisione terza per l’assistenza e la beneficenza pubblica, della direzione generale del Ministero dell’Interno. L’attributo provvisorio metteva in risalto l’abitudine della burocrazia a organizzarsi in modo precario di fronte alle emergenze, “identificando l’andamento dei fenomeni geofisici con quelli amministrativo-istituzionali”. ”La rovinosa concomitanza ” del ripetersi delle scosse telluriche nella zona calabro-sicula, nel 1905, 1907, 1908, e l’eruzione del Vesuvio nel 1906 portò la struttura provvisoria a divenire definitiva con il nome di Ufficio servizi speciali. L’ufficio, riformato nel 1920, fu operante fino alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo, la storia è quella dell’Italia Repubblicana, dove la Protezione Civile diventa un modello di intervento riconosciuto nel mondo e l’importanza delle competenze scientifiche e manageriali diventa notizia. Dalle macerie di un terremoto è nato in nuce un modello di gestione delle responsabilità. Che non si debba mai dire che il discendente di quel modello è crollato sulle macerie delle altrui responsabilità.

Flash mob: al Liceo Giulio Cesare di Roma si protesta così

I ragazzi del Liceo Giulio Cesare  durante il flash mob stamane a RomaMetto subito in chiaro, a scanso di equivoci. Conosco bene il Liceo Giulio Cesare di Roma, e da molti anni apprezzo l’impegno della dirigenza scolastica e dei docenti per l’idea di percorso formativo accanto ai giovani e per i giovani, che viene perseguito. Ma questo non è uno “spot” per un importante istituto scolastico. E’ un cammeo sui giovani di oggi – almeno su una parte rappresentativa di adolescenti –  sulla loro passione, sul loro modo di intendere la scuola. Le cronache locali dei quotidiani hanno riportato i blitz di alcuni gruppi neofascisti  che nei giorni scorsi hanno fatto irruzione in alcuni licei romani – Galilei, Azzarita, Alberti -. Lunedì scorso è toccato al Giulio Cesare. Dopo l’immediata condanna di professori, studenti e genitori, i ragazzi si sono messi freneticamente al lavoro per prendere le distanze  dagli autori del blitz del 22 ottobre. Ma anche per manifestare il dissenso  verso le  nuove misure previste dal Governo Monti per la  scuola pubblica. In modo pacifico. Ma forte. Efficace. Inequivocabile. La generazione 2.0 ha molto ben chiari i meccanismi della comunicazione, l’energia del messaggio. “L’idea, l’idea. Serve un’idea forte”, sentivo dire  da questi ragazzi. Telefonate, sms e scambi su Facebook a volontà.Poi, la “trovata”, il “colpo di genio”. “Ognuno di noi scriverà su un foglio bianco la sua idea di scuola e faremo un flash- mob davanti al liceo. Sui cancelli campeggerà uno striscione con la nostra idea collettiva  di scuola”, mi hanno detto alcuni di loro. Entusiasti, felici per quello sforzo di menti collettivo, quell’energia nel passare dal pensiero all’azione che li fa sentire forti, uniti di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, alle cose a cui vogliono gridare NO. Non so se sono così tutti gli adolescenti, perché,  come si legge nel contributo  di una  docente, pubblicato sul sito del Giulio Cesare qualche tempo fa, “non si può parlare genericamente  di ragazzi. Si può parlare di  Giulia, di Giacomo o di  Margherita e  ognuno di loro è unico“. Unici: nel capire che alle aggressioni  si risponde all’unisono e tempestivamente. “La scuola è famiglia”; “La scuola è il futuro”;”La scuola è amicizia”. Maglietta bianca e jeans –  la divisa della protesta -,   hanno manifestato questa mattina per due ore. Poi, tutti dentro a fare lezione. Nel pomeriggio, la consultazione  digitale su Facebook,  per i commenti e le azioni future. I provvedimenti annunciati dal Governo  sulla scuola  sono un altro tema di dibattito. La democrazia digitale si costruisce così.

Se il capitale umano può rivoluzionare i destini

Torno sulla “Rivoluzione industriale” che ha ispirato una “comunicazione ” e un documento importante (la MEMO /12/759) della Commissione europea , al centro del precedente articolo, un po’ perché il tema merita di essere affrontato disponendo di ulteriori elementi di conoscenza, un po’ perché ho ricevuto un commento da un lettore e ho promesso che sarei tornata su altri aspetti strategici di quei documenti. La “Memo” (MEMO/12/759), adottata dalla Commissione, in sinergia con la “comunicazione per una rivoluzione industriale capace di riportare l’industria in Europa”, nell’incipit esordisce così: “L’Europa ha bisogno ora più che mai che la sua economia reale sostenga la ripresa della crescita economica e l’occupazione e richiede una reindustrializzazione per il XXI secolo. Se l’Europa non riuscirà a tenere il passo con gli investimenti nelle nuove tecnologie, la sua competitività futura sarà seriamente compromessa”. I “pilastri” individuati per una “politica industriale rinforzata”, lo ricordiamo, sono rappresentati da:1) investimenti nell’innovazione – con particolare attenzione allo sviluppo delle tecnologie chiave abilitanti, dei prodotti bio-based, di una politica industriale sostenibile,nel settore delle costruzioni e delle materie prime, dei veicoli pulite delle reti intelligenti, oltre alle tecnologie avanzate per la produzione pulita, (queste ultime, citate nel precedente articolo “Una rivoluzione industriale per l’Europa”); 2) un miglior accesso al mercato interno e ai mercati internazionali, attraverso una serie di misure predisposte dalla Commissione; 3)un miglior accesso ai finanziamenti e ai capitali, attraverso un altro set di azioni; 4)il ruolo cruciale del capitale umano e delle competenze; 5) un ruolo attivo dell’industria per il successo delle azioni proposte. La vera “rivoluzione” del documento sulla “Rivoluzione industriale” è la volontà di conseguire gli obiettivi ponendo al centro il capitale umano e il miglioramento delle sue competenze. La Commissione europea da molti anni sviluppa il tema della relazione che intercorre fra la formazione e il placement lavorativo, ma l’originalità della strategia risiede nell’aver legato ora, in un rapporto di corrispondenza biunivoca, la capacità di anticipare l’adeguamento delle competenze di cui deve essere attrezzata la forza lavoro – per rispondere alle trasformazioni industriali imminenti – e le trasformazioni industriali stesse. Si tratta di un aspetto di straordinaria importanza, all’interno di una politica industriale per l’Europa, che offre la misura dell’incidenza della qualità del capitale umano per il buon esito di un processo innovativo che coinvolge i destini di tutti gli europei, e non solo. E’ questo un aspetto così nevralgico, da indurre la Commissione a impegnarsi nel “promuovere ulteriormente la cooperazione tra datori di lavoro, lavoratori e autorità competenti, attraverso la creazione di consigli settoriali europei sulle competenze e Alleanze delle abilità settoriali”.Per l’industria europea si tratta di una sfida irripetibile.Il protrarsi della crisi economica, segnala la Commissione europea, rende difficile compiere gli sforzi per aumentare la competitività, attraverso il cambiamento tecnologico e l’innovazione.Tuttavia, il costo della competitività continuerà a rappresentare l’elemento chiave delle imprese.A fronte di ciò, le economie emergenti si sviluppano progressivamente verso settori ad alta intensità di conoscenza e competono con “lavoratori sempre più qualificati, costi inferiori e infrastrutture migliori”. Tutto è perduto, allora? No, perché ci sono buone ragioni affinché l’industria europea sappia rispondere a questa sfida. Leader mondiale in settori come l’automotive, l’aeronautica, l’ingegneria, lo spazio, i prodotti chimici e farmaceutici, con l’80% delle spese in Ricerca e Sviluppo provenienti dal settore industriale, l’Europa potrà ridisegnare la nuova industria percorrendo con decisione la strada delle tecnologie chiave abilitanti – ad esempio, lo sviluppo sia dei materiali avanzati con proprietà speciali, sia  delle nanotecnologie può provocare un’inversione di tendenza per la produzione di base in atto in determinati comparti, come quello dell’acciaio -. Potrà individuare soluzioni per un invecchiamento sano della popolazione attiva, grazie ai progressi nel campo delle scienze della vita. Potrà contribuire, attraverso le nuove tecnologie, a prevenire catastrofi naturali e minacce terroristiche.Potrà abbracciare nuovi modelli di business capaci di creare un più forte collegamento fra la produzione e i servizi. Ma tutto questo, proprio tutto questo, rappresenterà soprattutto una occasione unica di valorizzazione e accrescimento del capitale umano.

Una rivoluzione industriale per l’Europa

Ridare smalto e grinta all’Europa, attraverso una nuova “rivoluzione industriale”, capace di “restituire le imprese” a quello che i libri di geografia chiamano il “vecchio  continente”. E’ questo il cuore della “comunicazione” sulla  nuova strategia europea che giovedì 10 ottobre il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, ha presentato a Bruxelles, con l’obiettivo sia di dare una risposta agli ingenti problemi  che l’industria europea deve fronteggiare, a causa della crisi economica, sia di presentare una serie di azioni prioritarie  destinate a favorire la ripresa  nel breve e medio termine, garantendo la competitività e la sostenibilità a lungo termine dell’industria europea.  Una “comunicazione” che non rimarrà lettera morta – perché saranno create entro l’anno “task force” per  monitorare il progresso  delle “azioni” –  e che guarda in modo deciso al ponte fra imprese, ricerca, sviluppo  e competenze nel perimetro delle grandi sfide mondiali. Ma che soprattutto arriva nel mezzo di un  periodo  – lu (altro…)

Chi sono

Fabrizia Flavia Sernia

Giornalista professionista, ha maturato un’esperienza professionale multiforme, sia nel settore dei media in ambito economico, finanziario e scientifico, sia nella comunicazione istituzionale. Ha ricoperto importanti incarichi in realtà pubbliche e private, particolarmente nel campo della ricerca scientifica, della valutazione del sistema universitario, del management delle professioni economiche. L’esperienza al CNR, come portavoce del Presidente, prima, e giornalista per la Comunicazione dei Dipartimenti, successivamente, l’ha fatta innamorare definitivamente dei temi centrati sull’impatto che la ricerca scientifica può generare nella vita di ognuno, favorendo benessere e inclusione sociale. Per la verità, un germe c’era già, fin dagli anni dell’Università, quando laureatasi negli anni ‘80 in Matematica, si è occupata subito dopo di modelli matematici di strategie aziendali. Moderatrice di tavole rotonde, collabora con il Sole 24 Ore e con il trimestrale Universitas della Fondazione RUI, oltre ad altre testate legate al mondo del management. Aperta alla contaminazione fra i saperi, sostenitrice convinta del fatto che il cervello è un muscolo che bisogna allenare con idee rinnovate, nel suo blog Fabrizia intende “CURIUSARE”, cercando sia nella vita quotidiana, sia negli accadimenti del passato una lettura con gli occhi vispi di chi crede che non c’è energia più rinnovabile del capitale intellettuale.