Continuo a sognare l’Africa

È notizia di questi giorni la sparatoria ai danni di Kuki Gallmann, la donna che mi ha fatto sognare l’Africa. Tra un viaggio della speranza in autobus, il rituale quotidiano di pulizia dallo smog e il bisogno disperato di silenzio mi capita spesso di pensare a lei, e non è retorica.
In queste ore il pensiero va non solo alle sue condizioni di salute, ma anche alle denunce di violenze e pericolo che la stessa Gallmann aveva fatto perché la situazione lì, in quel posto dove spesso sogno di trasferirmi, è tragica. In Laikipia, la povertà e la ricchezza siedono l’una accanto all’altra. guerre-per-acqua-mappaMeno di 50 individui possiedono il 45 per cento della terra di Laikipia, per lo più allevatori della fauna selvatica. Pastori affamati e assetati sono stati cacciati dalle loro terre per mancanza di pascoli e acqua.
E si sa che dove c’è carenza di risorse si generano disperazione e violenza.
La lista dei conflitti per l’acqua è in crescita in zone dove risorse come l’acqua sono diventate il bene più prezioso e la gestione e l’accesso sono controllate con le armi.
E siamo alle solite, accecati dalle nostre miserie quotidiane e dalla necessità di dominare il mondo, non ci rendiamo che buona parte della popolazione mondiale è allo stremo.

Probabilmente non andrò mai a vivere in Africa, ma cerco di vederla in ogni cosa: negli occhi dei migranti, nell’acqua che bevo, nel cibo che mangio…così quei conflitti diventano anche un mio problema (da risolvere).

La storia ci insegna…

“La pace, lo sviluppo e la protezione dell’ambiente sono interdipendenti e indivisibili”

Il viaggio verso la sostenibilità non può non passare da una importante presa di coscienza: sempre più spesso le scelte legate alla salute collettiva e alla tutela dell’ambiente sono imposizioni legate ad un interesse economico. Penso alla rivolta dei giovani di Hong Kong, alla primavera araba (capitolo chiuso e incenerito direi); penso alla grave situazione in Ucraina, che i media hanno pensato bene di ignorare…arriva un momento in cui qualcosa si muove e scoppia.

La storia si ripete, ma senza arricchire il bagaglio culturale della nostra politica, anzi…

La storia si ripete con l’illusione del petrolio; la storia si ripete con il decreto sblocca Italia; la storia si ripete quando chi ci governa è mosso dal principio “laddove la democrazia ci ostacola, imponiamo la nostra scelta costi quel che costi”. I costi sono ovviamente a carico della popolazione: soldi pubblici sprecati per un’illusione (se vogliamo credere nella buona fede), danni alla salute e all’ambiente. Nel frattempo crescono povertà e disperazione e di conseguenza crescono i conflitti per l’approvvigionamento delle risorse; cresce anche l’indifferenza generale e cresce il portafoglio delle ecomafie: una nuova colonizzazione.

Il viaggio verso la sostenibilità si fa sempre più tortuoso e la meta è sempre più lontana.

Peggio di noi…

“…perché lo Stato peggio che da noi, solo in Uganda” diceva Gaber in una canzone del 1991.

Il “sistema Italia” sta sprofondando nel baratro: Expo 2015, Mose, la camorra a L’Aquila, discariche abusive in ogni angolo, la morte delle rinnovabili, l’Ilva di Taranto, il Tecnoparco di Pisticci e le sue insalubri emissioni ecc. ecc.

Metafora dello stato di salute del nostro paese è la Concordia.

Siamo stati protagonisti di uno degli episodi più imbarazzanti della storia mondiale ed ancora non abbiamo imparato la lezione. Adesso vogliamo dimostrare al mondo che possiamo recuperare, come? spostando un relitto di quella portata, che non è in grado nè di galleggiare nè di navigare in un porto dove verrà smaltito.

Il relitto non può rimanere lì, ma siamo sicuri che le operazioni finora svolte e quello successive rispettano il principio di precauzione?

Queste perplessità ed altre ancora sono state oggetto di un esposto alla procura di Grosseto e di una interrogazione parlamentare di alcuni senatori del M5S.

Qualunque sia la destinazione del relitto, non può non rilevarsi la delicatezza dell’operazione in termini di sicurezza e di protezione dell’ambiente…le operazioni coinvolgeranno infatti aree protette e aree naturali sottoposte a tutela, le principali isole dell’arcipelago toscano e la Scarpata dell’Arcipelago“, si legge nell’esposto. Ricordiamo la delicata presenza del Santuario dei Cetacei, area marina protetta purtroppo solo sulla carta.

Ma oltre al pericolo di un ulteriore rilascio di sostanze inquinanti presenti sulla nave ( grassi e oli per gli ingranaggi meccanici, imballaggi di latta, fustini, barattoli, contenitori chimici, idrocarburi ecc.), vi è quello di un inabissamento del relitto, con il rischio di sommare ai danni già prodotti dal naufragio quelli potenziali legati allo spostamento.

I 14 senatori del M5S sottolineano inoltre che “il trasporto del relitto, nelle condizioni ad oggi note, aumenta il rischio che la nave affondi soprattutto in quei tratti in cui il mare è particolarmente profondo”, mettendo in questo modo a rischio “non solo l’area marina nella quale la nave presumibilmente non verrà mai recuperata, ma la stessa incolumità del personale che parteciperà alle operazioni di trasporto”.

Assisteremo probabilmente ad un ulteriore disastro.

Ma c’è di più: la mancanza totale di trasparenza della procedura di selezione del porto; tra Genova, Piombino e Civitavecchia vincerà chi avrà fatto la proposta più conveniente o chi ha i mezzi migliori per consentire lo smaltimento in sicurezza?

Intanto di cosa parlano i media? della disfatta della nazionale ai mondiali di calcio, a mio parere un’altra metafora.

L’Uruguay di Mujica batte l’Italia per l’ennesima volta.

La rinascita “green” non la vuole nessuno

Quando ho cominciato a scrivere su questo blog mi sono ripromessa di costruire un cammino verso la legalità sostenibile, passando dalle cattive pratiche fino ad arrivare a scovare in qualche parte del mondo l’affermazione reale dello sviluppo sostenibile, ma sono stata troppo ottimista. Forse perchè vivo in Italia e qui il concetto di sviluppo sostenibile è presente solo sulla carta dei convegni dei “soliti noti” o nelle buone pratiche di singole persone che per necessità o per scelta, si rifugiano in eremi di campagna. L’Italia purtroppo è ben lontana dal green new deal contrariamente a quanto si continua ad affermare sulle pagine dei giornali e nei titoli dei convegni. Non ci crede nessuno, neanche i “vecchi” ambientalisti che con nostalgia guardano alle battaglie fatte da giovani. Io non ci credo, vorrei che fosse così ma quello che vedo, sia nella vita di tutti i giorni sia nell’analisi delle norme, mi fa pensare che il nostro new deal (se esiste) è black.

Due eventi mi hanno colpito in particolare in questo periodo: la particolare nomina del ministro dell’ambiente (un commercialista nuclearista!) e la gestione nelle commissioni di Camera e Senato dello schema di decreto di recepimento della direttiva 2011/70/Euratom. Ho come l’idea che si voglia indebolire anche nelle istituzioni, un ambientalismo già sull’orlo del baratro, proteggendo gli interessi di alcuni.

Per non parlare delle armi chimiche a Gioia Tauro e del caso della bonifica ex area Sisas di Pioltello.

Mi chiedo se questi eventi siano frutto di una mancanza di coraggio o una scelta consapevole delle istituzioni?

Abbiamo trovato una soluzione

È stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il  Decreto-legge 10 dicembre 2013, n. 136, Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate, approvato il 3 dicembre scorso e meglio noto come decreto Terra dei fuochi.

Il decreto si compone di dieci articoli volti a modificare precedenti disposizioni per far fronte alle solite emergenze ambientali italiane in materia di rifiutie e non solo.

Il primo articolo del decreto, rubricato “Interventi urgenti per garantire la sicurezza agroalimentare in Campania” affida al Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, all’Istituto superiore di sanità e all’Agenzia regionale per la protezione ambientale in Campania il compito di svolgere le indagini tecniche per la mappatura, anche mediante strumenti di telerilevamento, dei terreni della Regione Campania destinati all’agricoltura. Tale attività dovrà svolgersi secondo gli indirizzi comuni e le priorità definite con direttiva dei Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e della salute, d’intesa con il Presidente della Regione Campania, da adottare entro quindici giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, cioè entro il 25 dicembre. Sarebbe un bel regalo di Natale se per una volta fossero rispettati i tempi richiesti da una norma. Ma qual è il fine ultimo di tali operazioni? accertare l’eventuale esistenza di effetti contaminanti a causa di sversamenti e smaltimenti abusivi anche mediante combustione. Nei 60 giorni successivi alla direttiva di Natale, gli enti incaricati dovranno presentare ai ministeri competenti una relazione con i risultati delle indagini svolte e delle metodologie usate, contenente anche una proposta sui possibili interventi di bonifica relativi ai terreni indicati come prioritari dalla medesima direttiva. Entro i successivi novanta giorni, gli Enti di cui al comma 1 presentano un’analoga relazione relativa ai restanti terreni oggetto dell’indagine. Entro i quindici giorni successivi alla presentazione dei risultati delle indagini rispettivamente di cui al primo e al secondo periodo del comma 5, con distinti decreti interministeriali dei Ministri delle politiche agricole, alimentari e forestali, dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare e della salute sono indicati i terreni della Regione Campania che non possono essere destinati alla produzione agroalimentare ma esclusivamente a colture diverse. Ovviamente sarà creato un ente ad hoc,  un Comitato interministeriale, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato, composto dal Ministro per la coesione territoriale, dal Ministro dell’interno, dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, dal Ministro della salute, dal Ministro per i beni e le attività culturali e dal Presidente della Regione Campania. Tali disposizioni sarebbero una gran bella cosa se il problema dei rifiuti in Campania fosse una novità, se non avessimo mai sentito parlare fino ad oggi di terra dei fuochi, di sversamenti illeciti di rifiuti nelle terre campane; se non ci fosse stato Gomorra, se la Campania fosse stata in Svezia. Invece è in Italia, dove l’aperture delle indagini in seguito ad una notizia di reato è nella maggior parte dei casi un principio; nella realtà per attivare la polizia giudiziaria su qualsiasi reato ai danni dell’ambiente ci vuole un caso eclatante. Il risultato è che per l’inerzia e l’ignoranza generale hanno messo in ginocchio una regione, che continua a perdere vite e risorse economiche.

L’articolo più famoso del decreto è quello sulla combustione illecita dei rifiuti; l’art. 3 infatti introduce modifiche all’art. 256 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, introducendo l’art. Articolo 256-bis. (Combustione illecita di rifiuti), che prevede la reclusione da due a cinque anni per chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate. Sono previsti aumenti di pena in casi particolari, come la commissione dell’illecito in zone dichiarate in stato di emergenza.

Infine il decreto contiene una serie di proroghe: del commissario rifiuti campani, del termine per piano  delle  misure  e  delle  attivita’  di  tutela ambientale e sanitaria  dei  lavoratori  e  della  popolazione  e  di prevenzione  del  rischio  di  incidenti  rilevanti del Commissario straordinario dell’Ilva, dei commissari per il dissesto idrogeologico.

L’art. 8 del decreto dispone invece le modalità di realizzazione degli interventi li interventi previsti dalle autorizzazioni integrate ambientali dell’Ilva.

Come  è facile notare, il decreto è un mix di disposizioni in diversi settori.

Come al solito la disciplina ambientale è contenuta in decreti d’urgenza confusionari e schizofrenici.

 

 

 

 

La tutela del territorio non è una banalità

E’ banale, ne sono consapevole ma ogni tanto la banalità è un dovere. Mi riferisco all’argomento caldo di questi giorni: il dissesto idrogeologico.

Stiamo assistendo a scene da fine del mondo: prima la Basilicata (per i meno informati: il 7 ottobre scorso la Basilicata sulla costa ionica si è allagata), poi la Sardegna, poi la Calabria, poi di nuovo la Basilicata, la Calabria, la Puglia sono diventati nella migliore delle ipotesi risaie, nella peggiore paludi di fango. Scenari di morte (non dimentichiamo che ci sono state vittime), distruzione e disperazione. Ad essere colpite sono regioni economicamente povere, la cui unica ricchezza è nella terra che ora stenta ad emergere sotto metri cubi di acqua; sono regioni che vivono di agricoltura e qualche giorno all’anno, di turismo. Ora gli abitanti della sardegna, della Calabria, della Basilicata non hanno nulla.

E di chi è la colpa? della pioggia! sostengono alcuni. C’è invece qualche fantomatico governatore che si chiede dove sono il riscaldamento del globo e l’innalzamento delle temperature se fa così freddo? Un genio!

L’acqua non è un male, non è pericolosa, è una risorsa. Tuttavia non sono normali queste piogge e qualche scettico dovrebbe cominciare a leggere qualcosa su cambiamenti climatici.

Non sono normali neanche queste tragedie annunciate; tutto ciò è frutto di una gestione del territorio criminale: deforestazione, cementificazione spropositata, incendi e tanta ignoranza. Si costruiscono case o zone artigianali sul letto di un fiume, si coprono corsi d’acqua per costruire strade, si tolgono alberi perchè sporcano o ancora una volta per costruirci sopra. Si svuotano montagne per la nostra sete di cemento; si costruisce sul mare per avere grandi villaggi turistici. Si fanno grandi opere per ostentare potere e ricchezza ma le piccole opere di manutenzione e di messa in sicurezza non sono mai una priorità. Ho visto pulire i canali nei giorni di pioggia, ma l’allerta era partita tre giorni prima. I consorzi o le società addette alla manutenzione sono molto spesso commissariati o senza risorse economiche; chi deve decidere pensa a farsi rimborsare il pacchetto di sigarette. In altri termini la nostra sicurezza è fondata sul nulla. L’unica sicurezza che conosciamo è quella militare; siamo disposti a spendere miliardi per un aereo da guerre stellari ma non nella manutenzione del territorio.

Cronaca di una tragedia annunciata.

e poi arriviamo a chiederci: ma il Tevere ce serve o nun ce serve?

 

Un green new deal è possibile, basta volerlo!

Sono convinto se c’è qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata…”. 970421_556187664442237_871917083_nE’ da queste parole del presidente americano Roosevelt che parte l’ebook “Basta volerlo. Soluzioni glocali per un nuovo paradigma energetico” scritto da Francesco Lattarulo, un giovane lucano con una laurea in economia e politica economica e con la passione per l’ambiente, con la prefazione di Giuseppe Onufrio, Direttore di Greenpeace Italia.

È in atto una nuova recessione, questa volta mondiale; l’espressione crisi è entrata nella vita quotidiana con la potenza di un uragano. Stiamo assistendo alla commistione tra due crisi, strettamente connesse, quella economica e quella climatica. Come siamo arrivati a questo punto? Il giovane lucano ce lo spiega in maniera lucida e spietata: a causa della nostra miopia e dal cinismo dei più volti alla ricerca del guadagno nel breve periodo a spese del lungo.

In pochi decenni abbiamo consumato le scorte di combustibili fossili e ne siamo diventati dipendenti, organizzando il nostro apparato energetico su di esse, ignorando non solo la loro esauribilità ma anche l’impatto ambientale derivante dalla loro trasformazione in energia. Il bisogno e conseguentemente la domanda di energia sono cresciuti in maniera esponenziale in pochi anni, e si prevede un ulteriore aumento.

Quando si parla di energia si comprendono tre differenti settori: energia elettrica, energia impiegata per usi termici e il settore dei trasporti. Le fonti energetiche non rinnovabili rappresentano più dell’80% della produzione mondiale. In particolare per l’energia elettrica la fa da padrone il carbone, per i trasporti il petrolio e per l’energia termica il gas. Come ovvio, la domanda di energia e il consumo sono più elevati nei paesi più industrializzati e nei paesi più popolosi. Mentre un’ampia parte della popolazione mondiale non ha accesso all’energia in nessuna delle sue forme; in questo si manifesta il confine tra ricchezza e povertà.

Quanto all’Italia, con il suo 54% di produzione di energia da gas naturale, nonostante la crescita di produzione da fonti rinnovabili, è quasi interamente dipendente da paesi esteri.

La schiacciante dipendenza mondiale dalle fonti non rinnovabili, in particolare dai combustibili fossili non ha fatto altro che aumentare le emissioni di CO2 e di altri gas nell’atmosfera, comportando, per quanto qualcuno cerchi ancora di negarlo, un esponenziale aumento della temperatura del pianeta. Il riscaldamento globale, il c.d. global warming, sta provocando siccità, perdita di raccolti, carestie, scioglimento dei ghiacciai, inondazioni e altre calamità naturali; ma allo stesso tempo rappresenta un vantaggio per i paesi con temperature molto rigide: pensiamo alla Russia, quanto tempo risparmierebbero le petroliere senza ghiacciai? e in vantaggi per le trivelle off-shore nei fondali dell’Artico russo?

Tutto questo oltre ad essere insostenibile, non fa altro che aggravare la portata del vulnus: se non si trova una soluzione non si uscirà dalla crisi. La soluzione non è nel mercato tradizionale, non è prettamente economica. La rinascita non può prescindere da un trinomio: rispetto, sviluppo, futuro. È necessaria una rivoluzione; occorre rovesciare i dogmi del passato che non considerano la tutela dell’ambiente una necessità e avviarsi verso un nuovo new deal: il global green new deal. Occorre però uno slancio reale verso questa rivoluzione: impiantare una strategia energetica di più larghe vedute che si sganci dal predominio assoluto del carbone e guardi oltre il 2020 ormai alle porte; “investire” nell’efficienza energetica per un risparmio economico reale; trovare soluzioni glocali: la crisi ambientale non è un problema territoriale, è una questione mondiale che richiede una politica senza frontiere che ci permetta di passare ad una civiltà post carbon.

Gli strumenti per arrivare al cambiamento ci sono e sono caratterizzati da tecnologie sempre più efficaci (si pensi alle smart grids, agli impianti di geoscambio, ai biocarburanti ecc) che nell’ebook sono descritti molto bene. La sorprendente crescita delle fonti rinnovabili, al di fuori di tutte le previsioni, come spiega Onufrio nella prefazione, è un sintomo della fattibilità del cambiamento. Il Green new deal ed io aggiungerei la rivoluzione ambientale, è possibile, basta volerlo!

Se non c’è bonifica, non c’è danno?

Niente risarcimento per danni morali, né bonifica del territorio per tutti gli abitanti della zona di Seveso. Oltre al danno, la beffa! 

La terza sezione civile della Cassazione ha rigettato il ricorso di  diverse persone contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Milano aveva già respinto le loro istanze risarcitorie.

Ma cosa chiedevano queste migliaia di persone? il riconoscimento, (perché no?!)  anche economico, del loro diritto a vivere in un ambiente salubre.

Il fatto è noto: nel 1976 nell’azienda Icmesa, che produceva sostanze chimiche a Meda, al confine con il comune di Seveso, a causa dell’innalzamento della temperatura di un sistema di controllo, scoppiò un reattore diffondendo nell’aria per decine di chilometri una nube di TCDD, la più pericolosa diossina conosciuta. L’emissione continuò per  ore, fino al raffreddamento della valvola. Il vento disperse la nube tossica verso est, sulla confinante cittadina di Seveso, in Brianza. 

Undici comunità nella campagna tra Milano e il Lago di Como furono  direttamente colpite dalla nube tossica. Ne furono colpite migliaia di persone e soprattutto gli abitanti di Seveso, che si unirono in comitati per fare valere i loro diritti legali in tribunale.  Riconosciuto il danno, ne fu riconosciuto il risarcimento. 

Ma ad oggi nessuna bonifica è stata fatta, per questo nell’aprile 2005, oltre mille abitanti di Seveso hanno intrapreso dinanzi al Tribunale di Monza, un’azione contro la società Icmesa, la cui «condotta omissiva», secondo i cittadini, in merito alla bonifica della zona, ha provocato danni morali anche in seguito agli innumerevoli controlli medici ai quali si erano dovuti sottoporre. I Giudici di primo grado e di appello, però, hanno respinto la domanda di risarcimento dal momento che la richiesta era caduta in prescrizione perché trascorsi troppi anni (oltre  5) dalla sua deposizione, escludendo che il nuovo risarcimento dopo una nuova bonifica fosse «autonomo e diverso» rispetto a quello già risarcito relativo al disastro del 1976.

Ed ecco l’ultimo atto in Cassazione: la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, “non poteva che iniziare a decorrere dal momento del fatto” e le “lamentate lesioni dell’integrità psichica di un danno morale da patema d’animo non costituivano, pertanto, manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile, bensì un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto“.

Senza entrare nel merito dei cavilli procedurali legati alla scure della prescrizione,  è bene tenere distinto il danno morale legato all’incidente dal danno morale legato alla mancata bonifica: l’uno è conseguenza immediata degli effetti devastanti dell’incidente, l’altro è legato al protrarsi ingiustificato di una situazione dannosa che influenzerà sicuramente gli abitanti della zona.

Se per bonifica si intende l’insieme di interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle CSC, è evidente che continuare a mantenere l’area contaminata non è uno scherzo. Tuttavia l’elenco delle aree non bonificate è lungo e preoccupante e di alcuni siti ne conosciamo le conseguenze spiacevoli.

Pensiamo a Bagnoli: 107 milioni di euro stanziati dalla Regione Campania per la bonifica dell’ex area Italsider di Bagnoli e dell’ Eternit; nessuna bonifica e una vera e propria catastrofe ambientale che avrà costi e ricadute elevate per la popolazione. Nel capo di imputazione, relativo all’ipotesi di disastro ambientale, nell’ambito dell’inchiesta sull’inquinamento a Bagnoli si parla di “aggravamento dello stato di contaminazione dei terreni all’esito della bonifica rispetto allo status quo ante”. Ma non basta, alcuni arrestati sono anche indagati per lo sversamento in mare di tonnellate di idrocarburi. Con il provvedimento di sequestro delle aree di Bagnoli, il gip del capoluogo campano ha disposto “un dettagliato piano di interventi finalizzato a un’adeguata bonifica e messa in sicurezza” delle aree sequestrate. 

Disastro ambientale per mancata bonifica; quindi non è possibile riconoscere il diritto dei residenti in quelle aree di riavere un ambiente il più possibile incontaminato? 

Quante Bagnoli ci vorranno prima di risolvere il problema?

 

Rifiuti radioattivi: segreti e misteri

Almeno una volta all’anno ci ricordiamo dell’esistenza del segreto di Stato; di antica memoria, il segreto viene rispolverato ogni tanto per oscurare o proteggere qualcosa.

Giuridicamente è un vincolo posto su atti, documenti, notizie, attività, cose e luoghi la cui divulgazione può danneggiare gravemente gli interessi fondamentali dello Stato. Si tratta di un atto politico che può essere disposto esclusivamente dal Presidente del Consiglio dei ministri in quanto vertice del potere esecutivo. Il segreto di Stato impedisce all’Autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione delle notizie sulle quali è apposto.

Considerata l’importanza degli effetti, la legge prevede dei limiti all’esercizio di questa prerogativa del Presidente del Consiglio: non può mai riguardare informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o concernenti fatti di terrorismo, delitti di strage, associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale di stampo politico-mafioso; il Presidente del Consiglio deve comunicare i casi di conferma del segreto di Stato al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR); la durata del vincolo è fissata in 15 anni, ulteriormente prorogabili dal Presidente del Consiglio. La durata complessiva non può essere superiore a 30 anni

La giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che la legittimità del segreto di Stato dipende dalla funzione da questo assolta. La segretezza può essere giustificata solo se è volta a garantire la tutela di un interesse costituzionale – individuato dalla Corte nella tutela dello sicurezza dello Stato – superiore e preminente rispetto agli altri principi di natura costituzionale coinvolti nel bilanciamento.

Mi chiedo se in tutto ciò rientra il segreto di stato sullo smantellamento, ad opera della Sogin, dell’impianto Itrec di Trisaia (MT) scoperto grazie alla richiesta di informazioni da parte del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, rivolta sia alla Sogin sia al Ministero dello Sviluppo economico; un segreto sul segreto: se non ci fosse stato l’articolo del quotidiano forse nessuno avrebbe saputo nulla.

Eppure nell’impianto Itrec sono conservati rifiuti radioattivi non fiori.

Lo stabilimento venne costruito per estrarre uranio da elementi di combustibile nucleare. Ed è per questo motivo che, 40 anni fa, dal reattore americano Elk River, in Minnesota, arrivarono a Rotondella 64 elementi di combustibile radioattivo. Lo smantellamento, ovvero il Piano globale di disattivazione dell’impianto, consiste in un progetto pluriennale che avrà rilevanti risvolti sul piano economico (occorreranno milioni di euro di soldi pubblici), e per la salute della popolazione.

Mi viene in mente il principio di informazione ambientale, l’importanza ad esso riconosciuta  e mi accorgo ancora una volta di come esso venga declassato in nome di interessi sconosciuti. Sull’oscura vicenda uno spiraglio di luce viene dall’interrogazione parlamentare presentata ieri.

Almeno qualcuno ora sa e ne può parlare.

Fukushima, cinghiali radioattivi…come lo spieghiamo alle generazioni future?

Sono trascorsi due anni dal disastro di Fukushima, le vittime dell’incidente nucleare non hanno avuto nessuna compensazione  e si sono fatte forza intentando una class action contro la Tepco: ma anche il più generoso risarcimento economico sarà mai proporzionato ai danni effettivamente prodotti? Come sempre, quando si tratta di questi casi, una violazione palese dei principi di precauzione, prevenzione e informazione ha rovinato per sempre un territorio e la popolazione che ci vive. C’è da riconoscere che il Giappone è rinato dalle sue ceneri, anzi macerie, in maniera impressionante, ma l’efficienza giapponese non può nulla contro il disastro nucleare.

Facendo improbabili voli pindarici con la mia mente, la prima cosa che mi viene in mente sono i cinghiali radioattivi piemontesi; per chi non li conoscesse, non sono una nuova razza di cinghiale, ma probabilmente l’ennesima conseguenza del disastro di Cernobyl. Dal 1986 ad oggi è ancora possibile trovare tracce di Cesio 137 nel nostro territorio, non immediatamente coinvolto nell’incidente nucleare? se la causa è Cerbonyl, ma non dimentichiamo che i cinghiali sono stati trovati in provincia di Vercelli e che in zona ci sono la centrale di Trino Vercellese  e il sito sperimentale dell’Enea a Saluggia, protagonista di vicende oscure in materia di sicurezza dei rifiuti radioattivi.

In Italia è proprio questo il problema: non ci è dato sapere in che modo viene gestita la nostra sicurezza. Abbiamo fortunatamente scongiurato il pericolo di una nuova apertura al nucleare; abbiamo case dello studente o ospedali che si sbriciolano come castelli di sabbia, abbiamo importanti procedimenti penali che ci hanno dimostrato che le mafie sono abilissime nell’infiltrarsi nei grandi affari, niente ci garantiva che il nucleare sarebbe stato diverso. Sarebbe stato divertente vedere i vari operatori alle prese con le norme del decreto 31/2010, ma meglio lasciare spazio alla fantasia.

Ci rimangono ora, i rifiuti nucleari sparsi qua e là in attesa di un ricovero, ex centrali nucleari in decommissioning (di esclusiva competenza della Sogin) che a loro volta produrranno rifiuti. Non c’è una normativa chiara in materia di depositi temporanei e non c’è chiarezza sul deposito nazionale. L’art. 4 del d.lgs 230/95 (“Attuazione delle direttive 89/618/Euratom, 90/641/Euratom, 92/3/Euratom e 96/29/Euratom in materia di radiazioni ionizzanti”) definisce la gestione dei rifiuti radioattivi come “insieme delle attivita’ concernenti i rifiuti (raccolta, cernita, trattamento e condizionamento, deposito, trasporto, allontanamento e smaltimento nell’ambiente); lo smaltimento come “collocazione dei rifiuti, secondo modalita’ idonee, in un deposito, o in un determinato sito, senza intenzione di recuperarli”; infine smaltimento nell’ambiente: “immissione pianificata di rifiuti radioattivi nell’ambiente in condizioni controllate, entro limiti autorizzati o stabiliti dal presente decreto”. Il deposito e lo smaltimento sono disciplinati dall’art. 33 del medesimo decreto 230/95, il quale prevede che “la costruzione,  o comunque  la  costituzione,  e l’esercizio delle installazioni per il deposito  o  lo  smaltimento  nell’ambiente, nonche’ di quelle per il trattamento  e  successivo  deposito  o smaltimento nell’ambiente, di rifiuti   radioattivi   provenienti  da  altre  installazioni,  anche proprie,   sono  soggette  a  nulla  osta  preventivo  del  Ministero dell’industria,  del  commercio e dell’artigianato, di concerto con i Ministeri  dell’ambiente, dell’interno, del lavoro e della previdenza sociale  e  della sanita’, sentite la regione o la provincia autonoma interessata e l’ANPA”. Il secondo comma dell’articolo prevede la creazione di un decreto che dovrebbe stabilire i livelli di radioattivita’  o  di  concentrazione ed i tipi di rifiuti a cui si applicano  le  disposizioni   di cui all’art. 33,  nonche’  le disposizioni  procedurali per il rilascio dl nulla osta, in relazione alle  diverse  tipologie  di  installazione. Ad oggi tale decreto non è stato ancora adottato.

Riguardo al deposito nazionale, ovvero il deposito destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività e all’immagazzinamento  a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato provenienti dalla pregressa gestione degli impianti nucleari, non abbiamo nessun criterio e nessun termine di paragone sulla base dei quali fare previsioni. Non c’è nessun precedente positivo, non c’è memoria e nessuno è in grado di progettare qualcosa che dovrà svolgere brillantemente la sua funzione per almeno 10.000 anni. Abbiamo solo una fantasiosa e  ingarbugliata normativa; basta dare una lettura superficiale al D.lgs. n. 31/10 sul quale non ha le idee chiare neanche la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. La Commissione sostiene che la normativa è chiara in merito alla scelta della soluzione temporanea di lungo termine per i rifiuti di terza categoria e del combustibile nucleare irraggiato, mentre non è altrettanto univoca riguardo al tipo di deposito, di superficie o geologico, per i rifiuti di seconda categoria.

Ma quello dei depositi dei rifiuti radioattivi non è un problema solo italiano (si pensa anche a un deposito europeo per i rifiuti di terza categoria). Infatti qualcuno fuori dal nostro Paese, si è posto persino il problema della memoria storica del deposito: ammesso che venga trovato il modo per mettere in sicurezza i rifiuti ad alta radioattività, come si fa a mantenerne memoria per diecimila anni?

Leggendo qualcosa sull’argomento ho trovato alcuni passi di un saggio del sociologo Ulrich Beck che parlando del problema della trasmissione del messaggio di pericolo alle future generazioni (sul quale è stato fatto un vero e proprio studio) scrive: ” I membri della commissione andarono alla ricerca di modelli tra i simboli più antichi dell’umanità, studiarono la struttura di Stonehenge (1500 a.C.) e delle piramidi, esaminarono la storia della ricezione di Omero e della Bibbia, si informarono sul ciclo vitale dei documenti. Ma si trattava di modelli che avevano tutt’al più duemila anni, non certo diecimila. Gli antropologi consigliarono di usare il simbolo del teschio, ma uno storico fece presente che per gli alchimisti è simbolo di resurrezione.

Inoltre uno psicologo fece un esperimento con alcuni bambini di tre anni e scoprì che se il teschio era incollato a una bottiglia, i bambini gridavano atterriti la parola “veleno” ma se era appeso a una parete esclamavano entusiasti la parola “Pirati“.