PERCHE’ BUTTARE UNA RISORSA? IL CASO DELLE RETINE PER LA MITILICOLTURA

retina sporcaI mitili sono i frutti di mare più caratteristici e diffusi in Italia, fra i componenti di questa famiglia di molluschi, la cozza, Mytilus galloprovincialis, rappresenta di gran lunga il mollusco preferito al quale si associa un’antica tradizione che coniuga l’allevamento delle cozze con tante apprezzate specialità culinarie.

Ogni anno in Italia si vendono oltre 70.000 tonnellate di cozze e per queste si consumano circa 2000 tonnellate di retine (o calze), utilizzate negli allevamenti marini per sorreggere le cozze durante tutta la loro crescita. In particolare, durante il ciclo di vita della cozza, le retine sono sostituite due volte e durante il cambio, poiché l’operazione viene effettuata in mare, una parte di queste sfuggono al recupero e vengono disperse in mare. Sostanzialmente per ogni kg di cozze portato al mercato, si utilizza circa un metro lineare di retina il cui costo è pari a circa 4 centesimi/metro per un totale di oltre 2 M€/anno.

Secondo un’indagine ENEA-Legambiente le reti per la coltivazione delle cozze sono fra i rifiuti spiaggiati più numerosi soprattutto nelle aree dove sono collocati gli impianti, coste adriatiche prevalentemente. Nei monitoraggi dei fondali la presenza di retine è ancora più alta (73 calze ogni km quadrato di fondale). I tempi di degradazione dei materiali polimerici utilizzati (prevalentemente polipropilene) sono superiori ai 200 anni.

È necessario quindi avviare pratiche di gestione corretta di questo rifiuto attraverso un’efficace raccolta cui deve far seguito un sistema di trattamento orientato verso il recupero del polimero utilizzato per la realizzazione delle retine.

Attualmente alle retine usate viene associato un Codice CER corrispondente ad un rifiuto speciale non pericoloso e quindi il loro corretto smaltimento comporta oneri economici non trascurabili (3-5 centesimi/kg). L’attribuzione del codice CER deriva dal materiale organico (biofilm, residui di animali, etc) attaccato alla superficie delle retine, pertanto la sua rimozione ne consentirebbe la declassificazione o, meglio, il recupero e riciclaggio del polipropilene nell’ambito della stessa o in altre filiere che lo utilizzano.

Recentemente, un progetto elaborato da ENEA e finanziato dall’Associazione Mediterranea Acquacoltori (AMA) ha portato allo sviluppo di un processo di recupero del polipropilene basato sulla distruzione, per via chimica, del materiale organico. Il processo è stato sviluppato a livello di laboratorio: funziona, almeno con quantitativi ridotti. Il materiale polimerico ottienuto ha le stesse caratteristiche meccaniche e chimiche di quello vergine.

L’applicazione di questo processo permetterebbe la realizzazione di una piattaforma di trattamento dedicata al riciclo del polipropilene, che, una volta liberato dai residui organici, si può riciclare, soprattutto nell’ambito della stessa filiera produttiva, evitandone lo smaltimento in discarica. C’è anche un certo ritorno economico poiché dal polipropilene riciclato si possono ottenere oltre 600 €/tonnellata. Si può, pertanto, configurare un ciclo produttivo virtuoso che coinvolga oltre gli allevamenti di cozze anche i produttori di retine poiché il polipropilene si può riciclare all’infinito con i ringraziamenti dell’ecosistema marino.

LE MICROPLASTICHE DEL LAGO DI BRACCIANO

_DSC0614Quest’anno, purtroppo, il lago di Bracciano è stato il simbolo di un’emergenza, la siccità che ha colpito la penisola italiana. Un’emergenza che finalmente ha fatto discutere di risorse idriche, di sistemi di gestione, di manutenzione delle reti idriche e, soprattutto, di costi.

Il livello delle acque del lago di Bracciano si è abbassato di oltre 160 cm rispetto allo zero idrometrico, la causa? Certamente le alte temperature e l’assenza di precipitazioni ma, soprattutto, il sovrasfruttamento della preziosa risorsa.

Le vicende del lago di Bracciano hanno interessato la cronaca nazionale, le immagini che hanno accompagnato articoli di giornali e commenti televisivi hanno raccontato di rive paludose e limacciose che hanno allontanato chi solitamente affolla le spiagge del lago. L’appello alla salvaguardia dell’ecosistema lacustre non è stato compreso, non è stato recepito il valore di quel metro d’acqua che racchiude la maggior parte della vita e della funzionalità ecologica del lago.

Durante quei giorni, pieni di polemiche, nel lago di Bracciano è terminato il viaggio per la Goletta dei laghi, simbolo del programma di monitoraggio dei laghi italiani condotto annualmente da Legambiente. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo cercato le microplastiche sulla superficie del lago laziale e, purtroppo, le abbiamo trovate. Le fotografie allegate lo testimoniano.

Per il campionamento abbiamo utilizzato un campionatore, tipo “manta”, specifico per la raccolta di materiali galleggianti in superficie. Il campionatore, dotato di due ali che ne garantiscono la galleggiabilità, è stato rimorchiato da un’imbarcazione fornita da Hydra-Ricerche di Trevignano.

Gli studi che riportano dati sulla consistenza del fenomeno nelle acque marine sono tanti mentre sono ancora molto scarsi i lavori scientifici che riguardano le acque interne. Già lo scorso anno ENEA e Legambiente hanno collaborato per caratterizzare le microplastiche raccolte nei grandi laghi del nord: l’elaborazione dei dati ottenuti ci comunica che ci sono decine di migliaia di frammenti per ogni km2 e che in prossimità degli scarichi i numeri aumentano. A breve avremo stime riguardanti il lago di Bracciano e sapremo di quali polimeri sono fatti i frammenti raccolti.

Le foto documentano il campionamento avvenuto nei primi giorni di agosto sul lago di Bracciano.

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PLASTICHE ANCHE NELLE PALLE DI NETTUNO

_DSC0445Le Egagropile, anche dette palle di nettuno o polpette di mare, sono quelle palline pelose portate sulle nostre spiagge dalle mareggiate. La loro origine è da attribuire alla degradazione dei rizomi e delle foglie della Posidonia oceanica, pianta marina (attenzione: non alga), endemica del Mediterraneo, caratterizzata dalle lunghe foglie e dalla presenza in vaste praterie comprese fra qualche metro e qualche decina di metri di profondità.

Processi naturali complessi (idrodinamicità, morfologia del fondale, etc) concorrono alla loro formazione e diffusione sulle nostre spiagge.

Una volta seccate sono “gomitoli” praticamente impenetrabili ma durante la loro formazione possono incorporare quello che trovano sul fondo.

Uno studio condotto da ENEA e Università Roma 3 (vedi qui) ha rilevato che durante la loro formazione le egagropile possono inglobare anche frammenti di plastica e microfibre (quelle rintracciabili negli scarichi delle lavatrici). La maggior parte di egagropile con microfibre sono state rinvenute (guarda il caso) in prossimità delle foci di fiumi dove scaricano depuratori di acque reflue urbane. Abbiamo trovato plastiche e microfibre in oltre il 50% delle egagropile prelevate in un paio di spiagge laziali. Curiosamente le dimensioni e la forma delle plastiche trovate all’interno delle egagropile sono simili alle fibre che costituiscono la “palletta pelosa”. I polimeri maggiormente presenti nelle egagropile sono Polietilene (frammenti di buste) e Nylon (frammenti di reti e fili da pesca) mentre le fibre sono costituite da intrecci di Poliestere, poliammide, PET e cotone.

È la prima volta che vengono trovate plastiche all’interno di questi materiali di origine naturale, pertanto, grazie a Goletta verde di Legambiente, abbiamo avviato una campagna di raccolta lungo le spiagge italiane. A breve sapremo se si tratta di un fenomeno isolato o esteso al punto da considerare le palle di nettuno un modo per valutare l’entità della diffusione di plastiche in ambiente marino. Le prime egagropile arrivate in laboratorio purtroppo non lasciano dubbi sull’entità del fenomeno.

IL PARADOSSO DELL’ECONOMIA CIRCOLARE

bottiglie-di-plasticaCapita, a volte, che un approccio sensato, razionale e quindi auspicato, crei situazioni paradossali, circostanze a cui nessuno avrebbe mai pensato.

La quantità di PET riciclata è scesa negli ultimi 5 anni dal 73% al 68% ed inoltre coloro che lo riciclano sono costretti a scartare molto materiale. Lo ha scritto recentemente l’associazione Plastic Recyclers Europe (link).

La costante perdita di materiale riciclabile dipende da vari fattori fra i quali, il più importante, sembra essere la diffusione sul mercato di bottiglie realizzate con minore quantità di PET e quindi più sottili. Chi non si è bagnato stringendo troppo energicamente una bottiglia d’acqua appena aperta? L’assottigliamento della bottiglia comporta, oltre la manipolazione scomoda, un incremento del tenore di umidità nelle balle di PET recuperato e inoltre una perdita di materiale dovuta alla scarsa consistenza dei pezzi di PET. In altre parole le tecniche di separazione selettiva non sono ancora adeguate a processare queste nuove bottiglie.

Si tratta quindi di un paradosso dell’economia circolare: limitare l’uso delle risorse (meno PET impiegato nelle bottiglie) ne limita il riciclaggio (difficoltà di separazione).

Un altro fattore limitante è rappresentato dall’impiego del PET nel packaging: attualmente si stima un utilizzo “no-bottle” pari al 18% in continua crescita. Il problema nasce poiché i sistemi di separazione selettiva non sono ancora tarati per questi nuovi impieghi del PET, soprattutto se opaco e/o colorato.

A questo punto sarebbe opportuno cominciare ad applicare concetti di eco-design (aggiungerei anche eco-manufacturing) per facilitare il riciclaggio del packaging. Ovviamente il modo migliore di riciclare rifiuti rimane quello di………. non produrne.

LA MONNEZZA

Dallo schifosissimo pannolino stantio all’innocuo flacone vuoto di alcol, quando diventano rifiuto, la nostra mente li segnala come pericolosi, oggetti di cui disfarsene rapidamente.

In casa sono l’unico che gestisce i rifiuti, il resto della famiglia si rifiuta anche di sollevare il coperchio dei contenitori: sono il “monnezzaro” di casa. Chi si ricorda di quest’uomo che andava raccogliendo i rifiuti casa per casa? Io me lo ricordo, lui saliva su fino al terzo piano e vuotava la pattumiera nel sacco. Mia madre, quando voleva intimorirmi, diceva che rapiva i bambini disubbidienti.

In quel tempo si consumava poco e si buttava meno. I vestiti passavano di padre in figlio e da fratello/sorella maggiore a fratello/sorella minore. Con gli spaghetti avanzati (se avanzavano) si faceva una croccante frittata. Insomma la monnezza era poca: la plastica non esisteva, avanzi di cibo non ce n’erano, al posto dell’acqua minerale c’era l’idrolitina, tutto si vendeva “sfuso” ed il packaging non era così invadente. Anche la carta stampata, terminato il suo compito culturale, dopo essere stata ritagliata in quadrati più o meno regolari, assumeva un altro incarico nel bagno.  Monnezza di un paese che non conosceva la parola “consumo”, che non aveva familiarità con l’usa e getta, tutto veniva riciclato.

In pochi decenni la monnezza è aumentata e si è arricchita anche di materiali tecnologicamente avanzati, di plastiche, di avanzi di cibo più o meno esotico.

Assicurati i bisogni primari siamo passati, con la complicità di una pubblicità compiacente e ruffiana, al superfluo e perfino all’obsolescenza programmata degli elettrodomestici.

Dimmi cosa butti e ti dirò chi sei. Una breve ricognizione nel secchio, una sosta in discarica sarebbero necessari per comprendere come viviamo e per dare il via a una cultura più razionale, più etica e, soprattutto, più rispettosa di questo pianeta.

 

PS: Ovviamente l’unico modo veramente sostenibile di trattare i rifiuti è di non produrli.

MICROPLASTICHE: VECCHIE FONTI DI INQUINAMENTO

MICROPLASTICHEPochi giorni fa ho trovato l’articolo scientifico che riporta la prima evidenza di microplastiche in mare. Si tratta di una nota datata 1972 e pubblicata sul n° 175 della prestigiosa rivista Science. Gli autori sono due oceanografi americani che si sono ritrovati pezzetti di plastica fra i campioni di origine biologica prelevati nel Mar dei Sargassi. Corpi estranei al biota marino: frammenti e pellets di plastiche aventi dimensioni inferiori a 0.5 cm.

Oggetti di plastica così piccoli secondo le linee guida, oggi riconosciute, sono definiti “microplastiche”.  Gli autori dell’articolo ne hanno stimato anche la densità media (3.500 pezzi/km2, min 47 max 12.080 pezzi/km2) ed il peso medio (286,8 g/km2). Oggi in alcuni oceani si stimano oltre 100.000 pezzi/km2 ovvero 30 volte il valore medio del 1972.

I due ricercatori non si sono limitati a riportare i dati ma, consapevolmente, hanno evidenziato i rischi di tali presenze “aliene” ed infatti concludono la nota scientifica dicendo: L’incremento nella produzione di plastiche associato alle attuali pratiche di smaltimento, probabilmente determinerà grandi concentrazioni (di  microplastiche) sulla superficie del mare.

I due oceanografi hanno messo in relazione lo smaltimento a terra e la presenza di plastiche in mare. Ancora oggi questo è un fatto che molti amministratori si ostinano a non accettare. Non esiste una sirena dispettosa che sparge plastiche in mare per farcele recapitare perfidamente sulle spiagge, le plastiche infatti arrivano perlopiù da terra e quindi il danno è attribuibile solo ed esclusivamente alla nostra cattiva abitudine di produrre rifiuti e spargerli nell’ambiente.

I due ricercatori hanno, inoltre, notato la considerevole presenza, nelle plastiche trovate, di inquinanti organici, PCB in particolare. Gli stessi composti osservati (allora) in alcune specie oceaniche. Oggi la letteratura scientifica riporta una serie innumerevole di composti organici e/o metalli pesanti trasportati dalle microplastiche, soprattutto quando sono già in atto i fenomeni di degradazione superficiale. Insomma abbiamo a che fare con piccole bombe chimiche che vagano nel mare in attesa di entrare nella nostra catena alimentare.

Già fin dagli albori dell’industria della plastica qualcuno, quindi, ha fatto notare i rischi associati al marine litter. Ci son voluti circa 50 anni per cominciare solo a prendere coscienza del problema. La maggior parte della plastica utilizzata quotidianamente può essere riciclata per produrre nuovi oggetti, basta saper gestire correttamente il ciclo dei rifiuti.

COTTON FIOC? Bleah

foto.JPG-2L’anno passato, durante la campagna Goletta verde di Legambiente, sono stati raccolti, per la prima volta, rifiuti di plastica sia in mare sia sulle spiagge italiane. La caratterizzazione, anche chimica, di questi rifiuti (svolta in laboratorio presso l’ENEA) ha mostrato una situazione preoccupante ed in particolare per la quantità e la tipologia del materiale rinvenuto. Fra i tanti oggetti di plastica recuperati, il numero medio di “cotton fioc” è stato pari a 4.2/m2.  Considerando i nostri 3300 km di litorali sabbiosi, ricaveremmo oltre 100 milioni di bastoncelli pari a circa 270 tonnellate di plastica. In altre parole se oggi Superman decidesse di raccogliere tutti i bastoncelli “plasticosi” giacenti sulle nostre spiagge ne raccoglierebbe così tanti che, messi in fila, formerebbero un enorme ago in grado di raggiungere il centro del nostro pianeta. Una overdose di insipienza e arroganza del genere umano.

Un dato sorprendente, un fenomeno che fa arrabbiare perché quello dei cotton fioc rappresenta un inquinamento gratuito. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che non si gettano nel wc perché oltre ad intasare le tubature, attraversano la sezione di grigliatura degli impianti di trattamento dei reflui urbani e quindi, attraverso gli scarichi, ce li ritroviamo nelle acque dei nostri laghi, fiumi ed infine nel mare e sulle spiagge. I bastoncini di cotton fioc sono fatti prevalentemente di polipropilene, ricordate il Moplen? Ricordate il ritornello “.. è leggero, è resistente, è fatto di moplen”?  Ecco, il bastoncello è talmente resistente che non è biodegradabile, si degrada dopo innumerevoli anni soprattutto sotto l’effetto dei raggi UV del sole.  A questo punto diventa ancora più pericoloso perché degradandosi si frantuma diventando microplastica e poi nanoplastica, in grado, quindi, di entrare nelle catene trofiche fino a raggiungere il nostro stomaco.

Quello dei cotton fioc è un classico esempio di come non funziona la nostra macchina amministrativa. I bastoncini per la pulizia delle orecchie non biodegradabili sono stati prima banditi per legge, art. 19 della legge 93/2001, e poi riabilitati: il riordino della normativa ambientale, testo unico 152/06, non disponendone l’esplicito divieto, ne ha consentito la ricollocazione sul mercato. Il risultato è oggi evidente: sono ampiamente diffusi lungo le spiagge ed il fenomeno è riconducibile al mancato funzionamento dei depuratori.

BOICOTTAGGIO!

Torno dove ho trovato un nido di Fratino, tre uova esposte al sole, piccole, indifese, una speranza di sopravvivenza per una specie in forte declino. Cerco i segnali che identificano la posizione del nido, ma al posto della buchetta con le uova trovo una spianata: qualcuno ha pulito la spiaggia con una setacciatrice meccanica.

hp photosmart 72016maggio08 040Coccia di Morto pullo di Fratino II° nido 15 05 07-001Ecco fatto! L’ennesimo tentativo andato a vuoto, un passo in più verso il silenzio dell’estinzione. Dopo oltre venti anni di delusioni ancora riesco a manifestare gesti di stizza. Se le uova fossero state predate da una volpe, da un gabbiano o da una cornacchia sarei stato più sereno perchè il fatto rientrerebbe nella normalità. M’irrita, invece, costatare ogni volta che il fratino deve il suo declino al tributo offerto ai bagnanti infastiditi da un po’ di legnetti spiaggiati.

Ormai, sulle spiagge, ognuno fa ciò che vuole e per quanto riguarda il fratino, solo il monitoraggio continuo e paziente dei volontari permette la schiusa delle uova (esempio1)(esempio2). Ruspe, rifiuti di ogni genere, serre “plasticose”, casaletti, casotti costruiti a tempo di record e recinzioni posticce rappresentano sempre più il paesaggio dunale. Anche chi gestisce un chiosco e cento metri quadrati di arenile, si sente autorizzato a setacciare la sabbia con vagliatrici meccaniche: macchine entrate a far parte dell’attrezzatura necessaria a servizio dei gestori. Le profonde alterazioni arrecate dalla pulizia meccanica ledono un bene pubblico (la duna) alterandone oltre l’as

_DSC0291petto, la funzionalità. Ogni traccia di vita, animale o vegetale, viene eliminata con i rifiuti. Si tratta di una prassi che andrebbe disciplinata, limitandone l’applicazione a quei tratti di arenile che hanno perso ogni traccia di naturalità. A cosa serve studiare e capire l’importanza degli ecosistemi se poi chi dovrebbe garantirne l’integrità latita? Sarebbe auspicabile che le Regioni ampliassero i loro piani di gestione indicando anche le modalità con cui gestire tratti di spiaggia affidati a terzi.

Non si può cedere alle pressioni di chi vede la spiaggia solo come un luogo di svago e di gioco. Chi ha bisogno di una spiaggia liscia e setacciata dovrebbe frequentare le spiagge attrezzate delle più famose e frequentate località costiere e non lembi isolati di duna e macchia mediterranea.

Mappare le località dove sono impiegate setacciatrici meccaniche, con lo scopo di boicottarle, può essere una soluzione?

22 miliardi

22 miliardi sono i polli che, secondo alcuni ricercatori vivono sulla terra (New Scientist: Clucking hell: The nightmare world without chickens). Niente male, tre polli per abitante. Meglio della statistica di Trilussa. Se a causa di uno sciopero planetario smettessero di fare uova o, peggio, a causa di un’epidemia o di un suicidio di massa morissero tutte, il nostro sistema, economico e sociale, crollerebbe. In particolare verrebbe a mancare un terzo delle risorse proteiche da carne oltre ai più di mille miliardi di uova prodotte e consumate quotidianamente. È duro ammetterlo, ma la civiltà che abbiamo messo in piedi è fortemente dipendente da una singola specie: il pollo.

La carne di questo volatile è un elemento centrale della nostra dieta, se la sostituissimo con altro (manzo, agnello, suino, etc) avremmo un incremento spropositato di gas serra (3-400%) e di superficie dedicata al pascolo. È stato stimato che la sostituzione con carne di manzo porterebbe ad un aumento di pascoli pari a due volte la superficie della Cina.

Nei paesi più ricchi, soia e legumi potrebbero garantire l’apporto proteico diminuendo anche i gas serra emessi, ma nei paesi più poveri, dove il pollo viene comunemente allevato, rappresenta un cibo a basso costo  che garantisce il principale apporto proteico.

22 miliardi di polli che ogni giorno producono elevate quantità di rifiuti, feci povere di sostanze organiche e ricche di azoto, fosforo e, in misura minore, potassio. Feci che poco si prestano a reintegrare terreni poveri. Feci che contengono inevitabilmente residui dei farmaci che, visti gli spazi ridotti in cui sono allevati, vengono regolarmente somministrati ai polli (vedi Report di domenica 29 maggio).

Poiché accade raramente che siano gestite ed eliminate correttamente dagli allevatori, le deiezioni di questi animali, in genere smaltite per spandimento sul terreno, finiscono per inquinare suolo, vegetali, acque e, di conseguenza, possono contaminare alimenti di cui si ciba l’uomo.

Lo scorso febbraio, con il DM 25/2/16, finalmente il Ministero delle politiche agricole ha individuato i criteri per stabilire quando gli effluenti di allevamento, insieme a digestati e acque reflue, possano essere esclusi dalla disciplina dei rifiuti. In altre parole sono state stabilite le norme tecniche che disciplinano l’uso agronomico (o energetico) dei reflui provenienti da allevamenti più o meno intensivi.

Considerata la confusione che ha caratterizzato il passato, vedi il caso del siero di latte, il Decreto rappresenta un importante passo in avanti verso l’aggiornamento della normativa riguardante l’uso di reflui zootecnici.

Ovviamente il problema sollevato con le prime righe di questo post rimane: siamo consapevoli di dipendere dai polli? Le galline, ritenute poco intelligenti da Napoleon e Palla di Neve (Fattoria degli animali di Orwell) sono state comunque capaci di ribellarsi contro una richiesta eccessiva di uova. Volarono su un trespolo e fecero in modo di infrangere sul suolo le uova deposte: annegheremo tutti in una frittata universale?

NATI CON LA CAMICIA

Eccolo li, sulla sabbia, sembra ferito con quell’ala distesa, incapace di volare e, soprattutto, indifeso e rassegnato. Tu, semplice curioso, predatore e comunque un intruso, sei attratto quindi, qualsiasi cosa tu stessi facendo, cambi traiettoria dirigendoti verso il “poveretto”. Lui, spaventato prova a volare ma ahimè non si alza da terra, si allontana solo di qualche metro e tu, ancora più determinato, lo segui. Assisti ad altri miseri tentativi di spiccare il volo salvifico ma l’ala sembra proprio rotta! Più che saltellare, qualche metro più in la, il misero non può, continui a seguirlo. Quale migliore occasione per un predatore? Ma quando il triste destino sembra ormai compiersi lui, miracolato, si alza in volo lasciandoti perplesso ma soprattutto beffato e con il naso in aria.

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Ho appena descritto l’unica strategia difensiva adottata dal Fratino, Charadrius alexandrinus, per contrastare i sui predatori naturali. Una strategia geniale, ma inutile per ostacolare ruspe, trattori e maleducati di ogni genere. Purtroppo per riprodursi, il Fratino ha scelto un ambiente fra i più colpiti dalle trasformazioni e dall’incuria: depone le uova, senza alcuna protezione, sulla spiaggia, a pochi metri dall’acqua. Questo ne fa una specie vulnerabile e, come già più volte sottolineato (vedi qui e qui), sulla via dell’estinzione. Un evento a cui stiamo assistendo nell’assoluta indifferenza di istituzioni, operatori turistici ed amministrazioni locali. Se ancora oggi possiamo goderci le sue corse sulla battigia, fra qualche anno per vederlo saremo costretti a frequentare le due-tre grosse aree protette nazionali che ancora ospitano un certo numero d’individui. Eppure basterebbe poco! Ad esempio evitare la pulizia dell’arenile con i vagli almeno dove è confermata la presenza della specie, oppure sanzionare pesantemente gli sbancamenti primaverili eseguiti per fare spazio ai bagnanti. Ogni anno, a Marina di Ardea, in un comprensorio privato, i nidi sono distrutti dalle ruspe. Basterebbe il dialogo fra chi gestisce le attività turistiche e chi cerca di tutelare la specie. Basterebbe un po’ più di senso civico e di rispetto delle regole, anche non scritte. Basterebbe una maggiore consapevolezza dell’importanza e della bellezza di ogni forma d’espressione della vita, siano esse immobili piante, minuscoli insetti o cieli colorati dal volo dei fenicotteri rosa.

Nel Lazio ancora qualche coppia (una decina) nidifica in un delicato equilibrio, ma sono davvero troppe le minacce che ne determinano lo scarso successo riproduttivo. La femmina del Fratino comincia a deporre le sue prime uova a marzo e, se va tutto bene, esse si schiudono dopo circa 25 giorni. Una volta nati, la femmina lascia al maschio le cure parentali e, spesso, va a cercarsi un altro compagno per deporre una seconda covata. Insomma in condizioni normali il nostro piccolo eroe dovrebbe portare a involarsi sei piccoli ogni anno: le cose però non stanno così. La prima covata viene spesso distrutta a causa dei preparativi necessari all’apertura della stagione balneare e la seconda, a stagione avviata, ormai è quasi sparita dalla casistica.

Durante questa primavera, dopo anni di tentativi falliti, finalmente a Torre Flavia, un’area protetta a nord di Roma, una coppia è riuscita a far schiudere la sua prima covata. Non è stato per niente facile. L’evento è stato reso possibile solo grazie alla determinazione di decine di volontari, reclutati, fra scuole locali, università e associazionismo, dal vulcanico Corrado. Per 26 lunghi giorni il nido è stato presidiato allontanando mezzi meccanici, cavallerizzi, fotografi troppo invadenti e cani tenuti liberi.

Siamo ancora lontani dall’involo perché sono necessari altri giorni di ansia, però la schiusa rappresenta già un notevole risultato cui ha contribuito anche il maltempo che ha caratterizzato gli ultimi fine settimana. Insomma una sinergia fra eventi meteorici e volontariato ha permesso questo evento quasi miracoloso. È il caso di dire che questi tre nuovi nati hanno avuto un gran culo!

A questo punto è lecito chiedersi se la nostra Civiltà possa permettersi di lasciare, distrattamente, che una questione così importante, come la tutela di una specie, possa essere determinata dal caso.