Parole tradite: Utopìa

Etimologia:

La parola utopìa fu coniata da Tommaso Moro nel 1516 come nome di una isola immaginaria dove si era realizzata una società perfetta.

La parola deriva da

oὐ (“non,”) e τόπος (“luogo”) e significa “non-luogo”,

oppure da εὐ (“buono,”) e τόπος, e quindi “bel posto”, oppure ancora da Οὐτοπεία che significa “luogo ottimo”

Nei dizionari:

Significato

Disegno di una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale gli uomini dovrebbero poter realizzare una convivenza del tutto felice (Sabatini, Coletti)

Modello immaginario di un governo, di un sistema, di una società ideale in cui tutti vivono in perfetta armonia e felicità (Aldo Gabrielli)

Sinonimi

sogno, chimera, ideale, fantasia, illusione

Contrari

realtà, concretezza

Hanno detto:

“Un mappamondo che non riporti l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo poiché tralascia una regione a cui l’Umanità tende sempre. E quando vi approda guarda fuori e, scorta una regione migliore, vi fa vela. Il progresso è la realizzazione delle utopie”.(O. WILDE, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891)

“L’utopia è là, all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi. Per quanto cammini, mai la raggiungerò. A cosa serve l’utopia? Serve a questo: a camminare ” (Eduardo Galeano)

Utopìa, sostenibilità e decrescita

Tommaso Moro, inventore di questa parola, con essa battezzò una società perfetta, descrivendone i principi di giustizia, equità, fondata sulla condivisione invece che sulla proprietà privata, sulla tolleranza e sulla libertà di parola e di pensiero, dove non esisteva la pena di morte. L’isola non esistente di Utopia era l’esatto contrario di quell’isola reale in cui viveva Tommaso Moro: la Gran Bretagna. Inutile dirvi che Tommaso fu condannato a morte. Quattro secoli dopo canonizzato come martire da Pio XI nel 1935. E’ questa uno storia piena di contraddizioni, dove c’è tutto e il contrario di tutto.

L’isola si basa su una struttura agricola ed è proprio l’agricoltura a fornire i beni utili per industrie, artigianato, ecc. Si produce solo per il consumo e non per il mercato. Oro e argento sono considerati privi di valore e i cittadini non possiedono denaro ma si servono dei magazzini generali secondo le necessità. Anche il numero dei figli è stabilito in modo tale che rimanga lo stesso numero di persone. Gli utopiani trascorrono il loro tempo libero leggendo classici, occupandosi di musica, astronomia e di geometria. Nell’isola di Utopìa c’era una società che oggi definiremmo sostenibile.

L’idea di Utopìa nasce dalla presa di coscienza che il mondo reale è pieno di difetti e senza speranza di migliorare, ma anche dal rifiuto di una analisi rassegnata e dalla proposta di un cambiamento radicale. Se oggi tutte le analisi economiche e ambientali ci descrivono cambiamenti planetari disastrosi, un futuro di scarsità di risorse e di arretramento del benessere, come risultato di una organizzazione economica che ha esaurito la sua spinta di progresso, pensare ad un mondo diverso, ad una diversa economia, ad una diversa politica è certamente una utopìa, ma è una utopìa necessaria. Oggi la mancanza di utopìe, il considerare l’esistente immutabile, rende l’umanità rassegnata fatalisticamente al peggio; rinunciare al sogno di una società giusta, agli ideali di uguaglianza di diritti per l’intera umanità, ed attaccarsi all’idea che ci si possa salvare da soli, anche a scapito degli altri, credere che il sistema economico attuale sia in grado di risolvere le crisi, che basti far ripartire la crescita perché ciò accada, è una illusione, una prospettiva irrealizzabile.

Un falso realismo che nasce dalla paura di cambiare e che non è capace di vedere nel futuro, altro che una replica del passato e del presente; è una logica molto diffusa che considera l’utopìa con disprezzo, roba da sognatori inconcludenti, roba da gente con la testa fra le nuvole. Se guardiamo in faccia la realtà, con gli strumenti che la scienza ci offre in abbondanza, ci accorgiamo che il vero realismo è invece impegnarsi a realizzare quel mondo che oggi non esiste, quell’economia della decrescita felice come unica prospettiva di progresso: la nostra utopìa necessaria.

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